[rotolando verso sud]

E così abbiamo deciso di investire i frutti del pickeraggio in un giro completo dell’isola sud, sfidando il destino – come sempre cinico y baro – e la scarsa collaborazione del proprietario del nostro ostello base a Wellington. Ci ha provato, infatti, a rifiutare il servizio navetta per il porto, la cui promessa gratuita faceva bella mostra di sé in più punti della reception: il chaltrone dei miei e altrui stivali accampava scuse improbabili, tipo il fatto che il 25 Aprile è festa pure in NZ, soprattutto alle settemmezza di mattina. Uno sguardo di Kobayashi, che minacciava di stazionare a oltranza la sua torva presenza davanti alla reception, e due o tre moine della sottoscritta (di quelle generalmente riservate ai somministratori di cioccolate non sufficientemente dense) son bastati a convincerlo.

Anche perché poteva andar peggio.

Poteva piovere.

E non smettere per i due giorni successivi.

Sotto la pioggia battente abbiamo attraversato la parte alta del gambaletto (non ci riesco a chiamarlo stivale, così diviso com’è. Al massimo un tronchetto + scaldamuscolo), passando per ettari ed ettari di vigneti in preda a rubiconda colorazione autunnale.

Sempre sotto la pioggia battente siamo giunti a Hokitika, il nostro avamposto della west coast, dove ci siamo infiltrati nell’ostello col più alto indice di gradimento incontrato finora, gestito  – per qualche oscuro motivo – dal fratello di Lamberto Sposini. In una cucina da favola (nema problema, non sono stata colpita dal morbo di Bites, che mi entusiasmo per le cucine. Gli è che questa meritava davvero) siamo stati accolti da Harry Potter in persona e da una sposina inglese (rivelatasi poi la moglie di Agassi, secondo il Nicola Pietrangeli de noantri) che prima che potessimo dire ancuticurrasubugginu ci ha affidato le sue patate nel forno, chiedendoci di custodirgliele per una ventina di minuti: giusto il tempo di andare in una grotta lì vicino a vedere certi vermi fluorescenti che pare vadano per la maggiore, in NZ. :ecosafaiteneprivi:

E dopo una notte nella suite dell’oystercatcher cosa c’è di più corroborante che guadare il parcheggio per recuperare l’auto che sguazza – insieme a tutte le altre – in quaranta centimetri d’acqua?

Poco male per Agassi e consorte, che tanto stavano andando a fare rafting 5 :certoanchiotuttelemattine:

Pochissimo male per la sottoscritta, alla quale Lamberto Sposini (probabilmente con qualche tara sulle cioccolate dense a cui rimediare) aveva appena indicato il sentiero in cima al giardino che consentiva di giungere a destinazione all’asciutto.

Decisamente infausta la situazione del povero Kobayashi, rinvenuto nel parcheggio che giocava all’uomo in ammollo (cum Clarks) fino alle ginocchia nel tentativo di raggiungere la macchina e spostarla dalla laguna. Il ritrovamento è stato reso possibile dall’applicazione della tattica “Pollicino”: invece delle celebri molliche è bastato seguire le madonne galleggianti nelle pozzanghere dopo essere precipitate insieme alla pioggia.

Non è un caso se da quel giorno Sua Altezza il Principe der Buco scassa la uallera per andare a fare rafting pure noi. :tantormai:

 

Allestito uno stenditoio itinerante sul lunotto posteriore per sgrondare calzettoni e altri animali gocciolanti, Totò e Peppino (con opzione alternata sulla malafemmina) si son diretti verso i ghiacciai. Che, attenzione! Il ghiacciaio, normalmente, è un animale che vive in montagna. Dappertutto, ma non qui, dove tutto è capovolto. O meglio, vive sì in montagna, e pure altissima e purissima, ma gli fa figo di sfociare dritto dritto nella foresta pluviale, a 300 metri s.l.m., che è a pochi chilometri.

Per essere pluviale, la foresta, lo è stata. Il cielo bassissimo ci ha regalato qualche fugace apparizione del monte Cook, la cima più alta della NZ, ammantato di neve, e i ghiacciai si son rivelati stupefacenti. Tipo che non puoi neanche sfoggiare le tue doti arrampicatorie da muflone :chilehaviste?: perché devi solo parcheggiare la macchina in una traversa della statale, passeggiare per dieci minuti in mezzo alle felci giganti e alle liane e improvvisamente sbigottirti davanti a ‘sta muraglia di ghiaccio. Per due volte nel giro di un’ora scarsa. E continuare a sbigottirti, primo perché non è normale che uno dei due ghiacciai più famosi della NZ si chiami Franz Josef, che nemmeno ci ha mai messo piede qui. E poi perché noti un paio di cartelli, lungo la via: dopo circa un chilometro dal fronte del ghiacciaio, il primo cartello segna dove arrivava nel 1950. Dopo un altro chilometro circa, un secondo cartello indica il punto in cui il ghiacciaio arrivava nel millesettecentocinquanta. Come dire che negli ultimi sessant’anni il ghiaccio si è sciolto più o meno quanto aveva fatto in precedenza in due secoli. Di questo passo nel 2020 non ci sarà più manco il tanto di uno steccalecca. Ma certo non si può pretendere che chi è impegnato a portare la democrazia nel mondo e a salvarci dal terrorismo :dipendequale: possa preoccuparsi di quisquilie e pinzillacchere come il protocollo di Kyoto. 

 

 

Ma proseguiamo, seguendo anche le tracce lasciateci via mail da un ammiratore di Kobayashi e del suo blog, che lui venera come la bibbia.

Uhm.

Kobayashi. Bibbia.

Diciamo che le segue con attenzione come le istruzioni della lavatrice.

Su sua indicazione passiamo la notte a Wanaka, dopo aver scavalcato bellamente località segnate in grande sulla mappa (senza fare nomi: Haast) e che si rivelano de visu metropoli da 357 abitanti, nonché dopo aver costeggiato un paio di laghi di dimensioni spropositate, tanto da sembrare mare all’orizzonte. Wanaka invece ha il suo perché. Per esempio ci becchiamo il secondo italiano incontrato casualmente in due mesi, e che resiste insieme a me ai fulmini e alle saette scagliati dall’ostelliera (capello violaverde che le invidio molto, più metallo addosso di quello che porta abitualmente Ying, in buchi naturali e artificiali, un tatuaggio del Taj Mahal in grandezza naturale e a colori e una serie di graffi sanguinolenti su mezza di seno in bella vista) costretta ad arrancare con gesso e stampelle per accogliere gli ostellisti. Solo che lui se li merita, i fulmini e le saette, perché passa il suo tempo a salmodiare incessantemente che ce l’ha alto e ce l’ha blu. :ccisua:

Wanaka vuol dire località turistica alpina in riva a un lago enorme, con le montagne innevate tutt’intorno e gli alberi vestiti da autunno. Vuol dire un momento idilliaco a seguire una gara di velocità tra papere. Vuol dire, soprattutto, che la sera ceniamo inaspettatamente fuori e che questo ci salverà, e che una certa trota farà il suo incontro con la Chocolate Ale. :slurp:

L’indomani scendiamo a Queenstown (che non si fila nessuno e invece è deliziosa) passando per Arrowtown, segnalato dal fan di Kobayashi come un posto carino quale in effetti è, a metà tra il far west e il villaggio dei cercatori d’oro, e diretti a Milford Sound. Nel frattempo ci si para davanti una serie completa delle location del Signore degli Anelli. Kobayashi, che stenterei a definire un appassionato visto che fino a quel momento si era dedicato pressoché unicamente a ribattezzare Frocho Baggins il protagonista della saga, resta talmente colpito da assumere la storica decisione di vedere anche la seconda parte del film. :applausi:

 

 

Milford Sound, probabilmente il posto più fotografato di Kiwilandia, si trova in culo ai lupi in fondo a una strada che porta solo lì. Un po’ come Perdasdefogu, che Giacomo Mameli mi perdoni, solo che il paese più vicino è a 121 km. Ci arriviamo al crepuscolo, passando in mezzo ad altopiani sterminati di erba alta che si muove come ad onde, laghi di specchio, pareti di roccia scolpite con l’ascia e un inquietantissimo tunnel chiamato Homer’s. No, non il Simpson, quell’altro. L’unico tunnel in discesa che mi sia mai capitato di vedere, buio, semiallagato e tagliato a morsi da qualche mostro nella roccia viva. La discesa agli inferi è regolata da un semaforo che scatta ogni quarto d’ora. Ci passiamo trattenendo il fiato, e sbuchiamo in una valle talmente profonda da sembrare stretta. In realtà sono le montagne intorno ad essere altissime.

(ora, sia chiaro: io non ne capisco una beatafava® di montagne. Sono una creatura marina. Mi limito ad osservarle da profana, col muso per aria e la bocca spalancata per la meraviglia. Il risultato è in gara per il quarto posto nella classifica “Espressione beota dell’anno”)

 

 

Passiamo la notte sotto un cielo limpidissimo e stellatissimo, impermeabile alle gioiose esternazioni di Kobayashi, che simpaticamente insiste nell’annoverare il nostro ostello tra i classici posti da catastrofe naturale e si dichiara pressoché sicuro che il fiume in riva al quale è stato costruito strariperà nottetempo trascinandoci via come fuscelli con armi e bagagli.

In attesa di morte certa per annegamento, ci complimentiamo con noi stessi per la nostra lungimiranza domestica, altrimenti detta botta di cϋlo: l’aver cenato fuori la sera prima, infatti, ci ha permesso di risparmiare la spesa fatta e di giungere fin lì con qualche straccio di provvista. La Nuova Zelanda è un paese frugale, spartano, attento alla natura e del tutto disinteressato a quelli che possono essere i bisogni più o meno indotti del consumatore. Il che significa, quindi, che sperare in un supermercato qui è pura utopia. In un ambiente simile si possono facilmente identificare le vittime del moderno sistema di stampo occidentale, abituate a mollezze e frivole comodità, al tutto, sempre e subito: sono quegli individui poco previdenti che rappezzano una cena con i generi di conforto offerti dallo spaccio dell’ostello, noodles al brodo di pollo, rigorosamente in scatola, patatine in busta e mars. :machebontàmachebontà:

 

 

Ci svegliamo vivi contro ogni leguleia previsione. L’aria frizzante ci avvolge mentre ci avventuriamo a dorso di battello nei meandri del fiordo, io e questo strano personaggio che si aggira agghindato come Epifanio. Tuffiamo il muso in un enorme muffin banana e cioccolato, gentilmente offerto dalla ciurma, e intanto ci troviamo circondati da pareti di roccia a picco che mostrano i loro strati geologici facendoci sentire piccoli e neri, cime innevate e cascate de paura, una delle quali immortalata in uno scatto kobayashico che ricorda l’incantesimo elfico che Arwen lancia sull’acqua per sfuggire ai nazgul insieme a Frodo. Durante la crociera scopriamo inoltre che il capitano Cook mancò Milford Sound per ben due volte, durante le sue esplorazioni del Fiordland (l’ingresso risulta completamente nascosto guardando dal mare aperto), che il primo abitante del fiordo fu un certo Donald Sutherland, un centinaio d’anni prima che girasse “La cruna dell’ago” probabilmente, che il fiordo registra oltre 6500 mm di pioggia all’anno e che periodicamente la foresta che ne ricopre le pendici collassa sotto il suo stesso peso e finisce in acqua, e la roccia nuda deve ricominciare daccapo, il tutto per la modica cifra di settant’anni per un ciclo completo.

milford soundarwen

 

Una volta sbarcati, con gli occhi ancora pieni di meraviglie, ringraziamo il dio del Fiordland che ha permesso l’installazione almeno di una pompa di benzina, chè altrimenti tornare indietro sarebbe arduo. Tempo trenta secondi e il dio del Fiordland lo devono raccogliere col cucchiaino insieme al tegame della su’ ma’: la pompa di benzina è spenta, morta, kaputt. La macchina che abbiamo noleggiato beve più di un cliente di Karl-Heinz, e noi siamo a meno di mezzo serbatoio. Ma non abbiamo di che preoccuparci, ci dicono: poco fuori dal tunnel (llellellè) pare ci sia un abbozzo di paese dove troveremo senz’altro della benzina.

Sarà. Nessuno dei due si ricorda il benché minimo paese lungo strada. Ma è anche vero che da queste parti un agglomerato di tre case e 47 abitanti è considerato una città (non esagero: si veda la guida AA della West Coast per conferma).

Ci avviamo perplessi. Poco fuori dal tunnel (llellellè) non c’è manco la casa di Barbie.

Venti chilometri dopo il tunnel, però, un cartello segnala la presenza di tale “emergency fuel”. A otto chilometri dal bivio. Casomai non ci fosse, ci sarebbe da incazzarsi appena.

Percorriamo ‘sti otto chilometri in mezzo al niente cercando di capire cosa spinga un neozelandese a piazzare la pompa di emergenza a otto chilometri anziché in una piazzola sulla strada. Non ci riusciamo. Ma quando ormai disperiamo di trovarla ci appare uno spiazzo con tre catapecchie, un emporio da casa nella prateria e una pompa del secolo scorso.

Darà mica benzina, quella roba lì.

La dà, ma non a noi. La pompista, infatti, esce dall’emporio per controllare il nostro serbatoio e, sostenendo che quanto abbiamo sia più che sufficiente per tornare alla civiltà, ci informa fieramente che non ci taglieggerà offrendoci la sua benzina di emergenza a due dollari il litro.

Noi gliel’avremmo comprata, ma ci fidiamo. E facciamo bene, perché ci arriviamo giusti giusti a Te Anau (che loro si ostinano caparbiamente a pronunciare Tianu, come fossero nell’oristanese. A parte questo, è bello vedere che la maggior parte dei luoghi ha mantenuto la sua denominazione maori). E comunque, hurrà!

Filiamo via senza altri intoppi alla volta di Invercargill, passando per campi di pecore, mucche e daini, e un tramonto incendiario come se ne vedono solo alla fine del mondo. Ma ci siamo diretti a sud per un motivo ben preciso, e questo motivo ha degli orari rigorosi. Non possiamo fermarci. Dobbiamo arrivare a Curio Bay.

 

tramontantartide

 

[incontri ravvicinati di un tipo a scelta]

 

La bibbia degli ostelli segnala a Curio Bay la presenza di un backpackers con un altissimo indice di gradimento. E cosa fai, te ne privi?

Sì.

Perché arriviamo lì che è già buio e l’ostello è pieno. Facciamo solo in tempo a intravedere una camera con parete a vetro su sei metri di spiaggia e poi il mare.

Ma tanto non ci volevamo mica stare, qui… :gnegnegnegnegnegne:

Fortuna che poco più in là ce n’à un altro. Pare. Si mormora. Si vocifera.

Buio pesto. Riusciamo per miracolo a imboccare il vialetto senza lasciare in giro degli incisivi.

Di citofoni manco l’ombra.

Dal piano di sopra, però, si vede una luce. Sarebbe solo bello capire come diavolo ci si arriva, al piano di sopra.

Al terzo giro intorno alla casa, e giusto un attimo prima di decidere di dormire in macchina, troviamo una porta. Saliamo. Ci troviamo in un ampio soggiorno dove un gruppo di ragazzi smette per un attimo di cenare e ci chiede se siamo Tizio e Caia, i proprietari.

Effettivamente non lo siamo. Per scrupolo controllo Kobayashi. Non mi è il proprietario dell’ostello, no.

A quanto pare alcuni di loro hanno prenotato per telefono. La casa era aperta, loro si sono insediati, l’ostelliere ha lasciato detto che sarebbe passato dopo cena per regolarizzare i conti. Comunque, salvo altre prenotazioni, dovrebbe esserci posto anche per noi.

Nel dubbio approfittiamo della cucina per cenare. Periodicamente, nel corso della serata, si ripete la stessa scena: qualcuno sale le scale, si sente chiedere se è il proprietario e risponde invece che credeva fossimo noi, e che vorrebbe un posto per dormire. Qualcuno resta ad aspettare, qualcuno se ne va. Tra quelli che restano, una coppia di sloveni che si scopre essere in viaggio di nozze. Un viaggio di nozze compresso, visto che hanno girato l’Australia come in un flipper, sparati da un posto all’altro per via aerea, e qui stanno facendo la stessa cosa, ma in auto. Stamattina, per esempio, erano a Milford Sound e dobbiamo per forza averli incrociati, visto che son saliti sul battello mentre noi ne scendevamo. La sposa (“lei è medico”, ci informa orgoglioso l’innamoratissimo marito) ci spiega come funziona la ripartizione dei compiti: “Lui guida e io strillo “Aaaaaaaaaaaahh! Rallenta!!”. Stamane a momenti si schiantavano, mentre correvano alla ricerca della pompa di emergenza. A loro l’hanno data, la benzina, erano a secco. Raccontano di aver dormito in macchina per le due notti precedenti, quattro o cinque ore per notte, per risparmiare tempo. Entro tre giorni devono aver completato il giro, altrimenti perdono il volo da Christchurch. Un canadese allampanato si offre di far loro da guida per le meraviglie del posto in cambio di un passaggio, e va avanti a parlare per delle ore. Troppo, secondo un altro ospite che continua a metter su del rap israeliano. Un suo amico risponde tranquillamente al telefono che squilla, e – visto che c’è – chiama a casa. Un altro legge sul divano con una gamba perfettamente tesa sulla testa in una spaccata impeccabile.

In una vaga atmosfera da manicomio, ci mettiamo a leggere a letto in attesa del padrone di casa.

A voi posso confessarlo: io credo proprio di averli sentiti, i proprietari dell’ostello, quando sono arrivati. Ma ho fatto finta di niente. Kobayashi pareva essersi addormentato sul libro. Ho pensato che a un certo punto si sarebbero affacciati in camera e ci avrebbero chiesto i soldi. Invece niente. Quando ho sentito le voci chetarsi, mi sono addormentata anch’io.

 

La sveglia suona che fuori è buio.

Raccattiamo le nostre cose in silenzio. Non sappiamo se i padroni di casa si trovano lì o meno. Dovessero beccarci che ce ne andiamo quatti quatti, diremmo loro dove stiamo andando e che saremmo tornati subito dopo per fare colazione, una doccia e saldare il conto.

Siamo talmente in malafede che a momenti ce ne andiamo a fari spenti.

 

Proviamo a seguire le indicazioni carpite la sera prima al canadese. Dappertutto è segnalata la foresta fossile, ma non quello che cerchiamo.

Ripercorriamo la strada da cima a fondo un paio di volte. Curio Bay è un buco, assurdo non trovare il posto. I fari di una macchina appaiono in lontananza. Evidentemente non siamo gli unici disperati in giro a quest’ora (non lo siamo no: il furgone degli israeliani si è volatilizzato dal parcheggio dell’ostello ancor prima di noi). Chiederemo a loro, sperando che non siano gli ostellieri a caccia di ospiti insolventi.

Invece sono gli sloveni e il canadeseffeminato, che camuffa il fatto di aver sbagliato strada con la scusa di voler mostrare loro la costa, sorvolando sul fatto che è ancora notte e non si vede un cazzo. Ma ci dà l’indicazione giusta.

 

Lasciamo la macchina e ci incamminiamo per un vialetto. E’ ancora buio. Un chiarore quasi impercettibile comincia a farsi strada mentre scendiamo le scale che portano alla spiaggia. I cartelli segnalano ancora solo e soltanto la foresta fossile.

Invece dopo appena qualche istante intravediamo la prima, inconfondibile sagoma. Il modo in cui muove le ali mi fa pensare – chissà perché, poi – a Giuliano. In piedi su uno scoglio, sembra fiutare l’alba e dare il tempo agli altri tre che compaiono di lì a poco. Ci avviciniamo lentamente, forti anche del fatto che siamo sopravento. Per un attimo si immobilizzano vedendoci, poi si dirigono verso il mare. Chissà se la nostra presenza li ha convinti ad accelerare le procedure o meno. Si muovono in fila, il primo sempre davanti a guidare gli altri, giù dagli scogli, su per gli scogli, sentiamo le loro zampette fare cic-ciac sulle pozzanghere lasciate dalla marea che si ritira. Si muovono rapidi con quel loro dondolare tipico, e poi scompaiono in acqua.

Le primissime luci dell’alba scoprono sulla mia faccia e su quella di Kobayashi la stessa espressione rapita di gioia infantile, totale e pura.

Sotto l’albero di Natale abbiamo trovato i pinguini.

 

 

[sa die de s’antartide]

 

A pochi chilometri da Curio Bay si trova Slope Point, il punto più a sud dell’isola sud. E quello che ho dimenticato di fare a Cape Reinga (l’estremo nord) devo farlo almeno qui. Oggi.

I Quattro Mori garriscono sul cartello indicante la distanza dal Polo Sud, a suggellare il fatto che oggi, all’alba del 28 Aprile, in nome del popolo sardo prendo possesso della Nuova Zelanda.

Qualcosa ce ne faremo.

 sa die

 

 

 

[è di rigore l’abito scuro]

 

Si sa come sono le sorelle e i fratelli: a volte litigano per lo stesso giocattolo. Credo sia per evitare litigi che i genitori delle due isole neozelandesi hanno regalato a ciascuna una cattedrale di roccia. Mentre ci appropinquiamo a quella sudista, vediamo una sagoma familiare venirci incontro: il canadese! E gli sloveni appresso. Esattamente la stessa scena che si era ripetuta poche ore prima a Slope Point. Nel nostro logorroico coinquilino matura la convinzione che li stiamo seguendo, annuncia che riporterà tutto nel suo blog e prima che si possa dire “coddaietessinoporiressi” caccia fuori la macchina fotografica e ci immortala. Ora mi toccherà seguire le sue tracce come un cacciatore di taglie on line, trovare il suo blog e distruggerlo. Forse anche lavare l’onta col sangue. Le faremo sapere.

 

La cattedrale di roccia di quaggiù è bella e imponente, ma non spettacolare come quella del Coromandel. O forse le troppe meraviglie naturali danno assuefazione, chi lo sa. In ogni caso abbiamo a disposizione idonea documentazione fotografica sulla geologia del posto da sottoporre all’attenzione dell’ing. Gulk appena tornati. Non capita spesso, infatti, di arrampicarsi su per l’ingresso della prima navata in mezzo a delle rocce rosafragola. Almeno, non a me.

catheral south 

Proseguiamo il giro delle Catlins fra cascate (dove si incontrano attempate signore con discrete acconciature da circo), faraglioni in mezzo a lagune invalicabili (dove attempate signore dalle gambe troppo corte non spiccano salti adeguati e si ritrovano con l’osso sacro insabbiato), solite piantagioni di pecoremucchedaini. E arriviamo a Nugget Point.

La passeggiata panoramica al faro viene abolita appena presa visione del cartello che avverte di come alcuni tratti del percorso risultino “esposti” e necessitino particolare attenzione. Ora, se una popolazione che appena trova qualcosa alto più di cinquanta metri ci si butta giù attaccata a un elastico, e se non lo trova si fa sparare in alto legata a una sedia; se una popolazione che cerca continuamente di convincermi che buttarsi da un aereo ogni tre per due abbracciata a uno sconosciuto sia una cosa spassosissima si prende la briga di dirmi che un certo tratto può considerarsi “esposto”, io lì non ci vado manco con un kalashnikov puntato alla nuca, sia chiaro.

Dopo aver pisolato in macchina per un paio d’ore come fossimo sloveni, cullati da raffiche di vento che fanno dondolare la macchina, caliamo verso Roaring Bay (un nome, una garanzia) per vedere i pinguini che tornano a casa. Ma qui non è come a Curio Bay: scendere fino alla spiaggia è assolutamente vietato, e bisogna accontentarsi di stare nascosti in un casotto di legno a distanza di sicurezza per non farsi vedere. Il nostro pinguino dagli occhi gialli risulta infatti essere il più raro al mondo, e guai a stressarlo. Una discreta folla si raduna man mano nel casotto (una folla secondo i canoni neozelandesi, claro: dieci persone). Attacchiamo bottone con una signora svizzera per passare il tempo, bullandoci della nostra esperienza pinguinale del mattino, quand’ecco che il primo appare sul pelo dell’acqua, e con un movimento fluido scivola in piedi e inizia ad arrampicarsi verso le rocce. Presto sono quattro i frac, elegantissimi, a dondolare fra sabbia, scogli ed erba. Chi se lo immaginava che i pinguini nidificassero fra l’erba? Presto spariscono nella luce del crepuscolo, probabilmente a gustarsi un aperitivo ghiacciato sulle loro terrazze sulla baia. Qualche minuto ancora ad ammirare il panorama e la sciura svizzera, che già si era avviata per tornare al parcheggio, torna indietro annunciando la presenza di una foca in spiaggia. Ma ci vuol altro, ormai, per stupire noi esperti naturalisti che con le foche ci giochiamo a mollo quando vogliamo… Doh!

pingu

 

 

[cuor di leone]

 

Arriviamo a Dunedin su un tappeto volante color tramonto antartideo. Dunedin è un’altra di quelle città che l’ammiratore di Kobayashi snobba con sufficienza, e invece è forse la migliore vista finora. Peraltro è stupefacente, dopo due mesi di case di legno, trovarsi di nuovo in una città in muratura. Cambia ad ogni scorcio, assumendo di volta in volta le sembianze di un borgo teutonico, di una cittadina scozzese o della profonda provincia inglese. Prendiamo alloggio in un ostello che dello chalet ha solo il nome: in realtà è stato ricavato da un vecchio ospedale, del quale mantiene ancora certe attrezzature, alcuni dettagli della struttura e un’atmosfera vagamente inquietante, a metà fra Dickens, Agata Christie, le paranoie della regina Vittoria e the Kingdom. La direzione garantisce la presenza di fantasmi, e invita peraltro bari e altri criminali a non mettere piede nel proprio ostello, così come tutti i gentiluomini a deporre spade e archibugi all’ingresso. In cucina fa bella mostra di sé il classico avviso da cucina di backpackers, quello che prega gli ospiti di lavare e riporre le stoviglie dopo averle usate: solo che è declinato praticamente in tutte le lingue del mondo, compreso un latino con poche speranze di essere compreso.  perlagioiaditig

Bighelloniamo pigramente per la città in una domenica soleggiata, ghignandocela bellamente per le solite manie dei kiwi di supplire alle loro invidie del pene pompando le proprie vere o presunte qualità. E questo va dalla presentazione di Dunedin come la quinta città al mondo per estensione (il che potrebbe essere vero, a guardarla. Ma mi chiedo quali siano le prime quattro) all’annuncio della prossima apertura del lavaggio cani più a sud del mondo.  lavaggio cani

Verso l’ora del tramonto intraprendiamo come di consueto la nostra passeggiata ecologica: una coppia tedesca, infatti, la sera prima raccontava di aver avvistato ben undici pinguini e plusieurs leoni di mare. L’avvertenza era però di non andare troppo tardi, perché il sentiero poteva rivelarsi arduo da percorrere in mancanza di una torcia. Posto che la torcia non fa parte del corredo di serie di Kobayashi, decidiamo di darci una mossa: giù per un sentiero scosceso in mezzo alle pecore libere (da vincoli territoriali ma anche da pregiudizi, visto come ci guardano), ancora più giù verso una spiaggia stupenda che si intravede oltre la duna.

A un certo punto ci imbattiamo in una turista in fin di vita. La poverina, rantolando, supplica il suo accompagnatore di lasciarla riprendere un attimo o di finirla sul posto. E buttando un occhio alle sue spalle capiamo il perché: per raggiungere la spiaggia c’è da scapicollarsi giù da un precipizio di sabbia, di quelli che si scendono rotolando garruli, ma risalire è impresa da Manolo. Poco più in là, un altro cartello rammenta ai visitatori che i cani non sono assolutamente ammessi nella riserva. Quelli che dovessero infrangere le regole sarebbero immediatamente uccisi o spediti alla vivisezione. Ora, posto che qualcuno dovrebbe essere così gentile da spiegarmi la raffinata differenza fra le due cose, e con la massima solidarietà verso i pinguini – per i quali i cani rappresentano una minaccia – mi chiedo che senso abbia prendersela con i poveri quattrozampe. Personalmente minaccerei di morte i padroni dei cani stessi. E tanto per non sbagliarmi truciderei sul posto anche l’idiota che ha pensato il cartello.

 

Scendiamo. La risacca ha costellato il bagnasciuga di matasse di alghe di proporzioni epiche. Il pensiero mi corre al sorriso felice del Generale davanti a forchettate da due quintali di spaghetti al nero di seppia. Alcuni dei ceppi di alghe sono stati sradicati completamente: la vista è vagamente da Grand Guignol: le radici sembrano gigantesche ossa fuori sede, con tanto di midollo spugnoso in bella vista. Intanto continuiamo a scarpinare lungo la spiaggia con un occhio costantemente indietro per cercare di memorizzare la via del ritorno nella luce che va calando.

Arriviamo finalmente in fondo: il solito casotto da osservazione si abbarbica a un’altra duna. Sotto, sulla spiaggia, un gruppo di leoni di mare si diverte a fare quello che fanno abitualmente i leoni di mare: giocano, litigano, si pigliano a musate, accennano dei morsi, sbadigliano, soffiano, corrono – fidatevi – avanti e indietro dal bagnasciuga e nei ritagli di tempo giocano la schedina. Le avvertenze dicono chiaramente di mantenersi a distanza di sicurezza, visto che non sono per niente impauriti dagli umani. Poffare, nemmeno io avrei paura di rigarmi la carrozzeria contro una panda se fossi un TIR. Kobayashi avanza di qualche passo per cercare di fotografarli; io resto alla base del sentiero che porta al casotto. Fra me e lui una piccola duna. Guardo gli ultimi raggi del sole che illuminano i cespugli sulla duna come fuochi artificiali e non faccio in tempo a finir di pensare “Però, figa ‘sta roccia, sembra una fo…” che la roccia SI MUOVE! Dio lattuga, un leone di mare a un passo da me! E si dirige verso Kobayashi!!

Indietreggio di un passo cercando di incrociare il suo sguardo e fargli segno di muoversi adagio e non strillare. Zero. Il gaglioffo si crede Oliviero Toscani e continua a scattare senza degnarmi di un’occhiata. Finalmente si accorge di una specie di spaventapasseri che agita le braccia per attirare la sua attenzione, inizia a sillabare “Che caz..?” e si congela.

Avrei tanto voluto averla io, la macchina fotografica, in quel momento. Invece purtroppo dovrete solo immaginarvela, la sua faccia.

leone di mare

Leone di Mare, intanto, incurante della pantomima, zampetta solennemente giù dalla duna, passa vicino a Kobayashi congelato, lo guarda con sufficienza e prosegue verso i suoi compari con la grazia di una betoniera.

Sulla duna restano tracce dei suoi escrementi. Non sono andata a guardare cos’è rimasto dalle parti di Kobayashi.

Nel frattempo i pinguini sono belli e che usciti dall’acqua e a mezza via sul costone di roccia che chiamano casa. Ne guardiamo un paio farsi strada in posti dove non ci si aspetterebbe di trovare un pinguino e poi ci avviamo verso l’uscita che ormai è quasi buio e devo ancora lasciare un polmone sulla maledetta parete di sabbia.

Ed è bello arrivare a casa panata come una cotoletta, con un raffreddore con manie di grandezza che si crede il cimurro, sognando nient’altro che una doccia bollente, due coccole e un letto.

E scoprire che l’ex figlia dei fiori che gestisce l’ostello è ora una patita del death metal.

 

[sgoccioli]

 

Risaliamo la costa est quasi in una tirata unica, con sosta di dieci minuti a Christchurch giusto in tempo per trovare l’ufficio informazioni chiuso. E provare un senso di panico alla vista del normale traffico di una città media dopo giorni e giorni di solitudine automobilistica, la stessa solitudine che aveva spinto Kobayashi a cercare di movimentare l’atmosfera viaggiando a una media di 140 all’ora sulla via di Milford Sound. Ed è stato un miracolo – per le nostre tasche – che il nostro incontro con l’autovelox sia avvenuto in un momento di quasi calma.

 

(la fredda cronaca:

Polizia: :flash: :flash: :lampeggiant: :inseguinsegui:

Kobayashi & Trota: (oh cazzo)!

Poliziottoamichevole: Buongiorno!

Kobayashi & Trota: (buongiorno un cazzo)!

Poliziotto amichevole: Scenda dalla macchina per cortesia. Dov’è la Sua patente? Venga da questa parte, verso la mia auto. Er, lo sportello è meglio chiuderlo, eh?

Kobayashi & Trota: (cazzocazzocazzo)!

Poliziottoamichevole: Vede, Lei stava procedendo a 113 km/h, mentre il limite è a 100.

Koabayashi: Oh. Vedo (cazzo. Però sembra amichevole. Magari mi fa solo la ramanzina).

Poliziottoamichevole: Sono 80 dollari. Er…come si scrive “Italia”..?)

 

Del resto, passare la notte in un posto che si chiama Christchurch dà un po’ i brividi. Magari mi appare Pruini in sogno. Meglio andarsene. :vamosvamosrapidamiente:

Saliamo fino a Kaikoura, dove l’idea sarebbe quella di vedere le balene.

Solo che vedere le balene è una cosa esosa, molto più del previsto.

Cerchiamo di spiegare che le balene vorremmo vederle, non comprarle.

Alla fine ci rassegniamo.

A passare gli ultimi due giorni a mollo nella spa dell’ostello (spa, piscina riscaldata, colazione aggratis e torta all’ora del tè servite su splendidi tavoli rustici, 25 euri tutto compreso. Son sacrifici, signora mia…)