[KME – postumi di produzione]

Apro gli occhi lentamente con una luce morbida e soffusa che filtra dal terrazzo.

Invece dei soliti pterodattili, odo cinguettare le allodole.

L’aria è tiepida e profumata di fine estate.

Il tè è finito, ma poco importa.

Mi stiracchio languida a letto, Grogu si precipita a inondarmi di coccole.

Assaporo il primo istante di quiete da una settimana a questa parte.

 

Neanche ve lo sto a dire, vero?

Il primo santo costa mille lire, il secondo cento, il terzo dolore e spavento. Nessuno ha spiegato ad Amaranta che il KME è finito, siamo in post-produzione, non abbiamo più tempi serrati, meteoriti che ci piovono in testa, gente da calare in tutta fretta dai piani alti di un palazzo squarciato appesa a sedie da ufficio con l’angoscia che la bocchetta dell’antincendio si strappi da un secondo all’altr…

Signor Da Soli.

Esca da questo corpo.

E tu, Ronzinante amarantaceo, fatti passare il mal di batteria a singhiozzo una volta per tutte, o quant’è vero Iddio ti sostituisco con una Prinz.

 

Quindi siamo a bordo dell’autobus, io e una velata incazzatura, che recitiamo i misteri dolorosi, quando dal finestrino scorgiamo lei.

Shirley Temple. Riccioli d’oro, vestitino verde pieno di ruches e volant, sandaletti bianchi e dorati. Come si accorge dell’autobus in arrivo, sgrana gli occhioni e comincia a correre verso la fermata cercando di non perdere la dentiera e le vene varicose per strada. L’operazione non è semplice, ma lei è agguerritissima. Quell’autobus le serve.

L’autista la vede. E si ricorda le prese in giro dei compagni di scuola, che per anni sono andati avanti a chiamarlo “zoccoletto olandese”, solo perché, checcazzo, adesso uno, in preda al fervore, non può leggere male il titolo sulla videocassetta che propone di vedere tutti insieme con grandi scorte di fazzoletti di carta?

Rallenta.

Arriva alla fermata, la supera e si ferma dieci metri più avanti, tritando una Smart inspiegabilmente parcheggiata a modino.

Shirley si è trasformata in Pina che rincorre il camion dei tedeschi che le porta via Francesco.

L’ha quasi raggiunto.

Arriva a sfiorarlo.

E il nazista riparte.

Per poi fermarsi al semaforo rosso, cinquanta metri più avanti, e restare arroccato sul suo sedile, insensibile alle suppliche di aprire le porte per far salire i sei palmi di lingua affannata con Shirley annessa, a rispondere “non si apre fuori dalla fermata” con quel tono toccante che solo le sbarre automatiche dei parcheggi hanno.

Poteva bastare.

Ça suffit, usava dire la mia prof. di francese quando il massacro sistematico di coniugazioni verbali cominciava a richiamare l’attenzione del tribunale dell’Aja.

Ma a noi non suffit mai.

Quattro metri prima della mia fermata. Incrocio. Nel cui bel mezzo si pianta, in diretta, un’apixedda bianca furgonata, di proprietà del comune, adibita al trasporto di mercanzie varie.

Che non ci sia lo spazio perché l’autobus le giri intorno è palese a tutti, cassonetti e cacche di cane sui marciapiedi inclusi, ma non all’autista del bus medesimo.

Il quale, spavaldo, inizia la manovra e si ferma solo quando l’autista dell’apixedda comincia a decantare a gran voce le tecniche di soddisfazione del cliente che hanno reso famosa sua madre nella zona fin dai tempi degli sbarchi dei mercenari punici.

Quello che si presenta agli occhi delle decine di nullafacenti immediatamente accorsi sul posto è un perfetto stallo alla messicana che ha trasformato l’incrocio di fronte al comune di Urano in quello di Shibuya: apixedda guasta in mezzo all’incrocio, con autista murato dentro dalla fiancata dell’autobus; autobus incastrato tra l’apixedda e le macchine parcheggiate sull’altro lato; un altro autobus che è giunto alle spalle del primo a chiudere ogni via di fuga. Tutti che strillano come se un pazzo avesse telefonato per dire che il primo che scende sotto i 110 decibel esplode.

Quattro metri dalla mia fermata.

Mi schiarisco la voce.

Così, per sport, perché col casino che fanno questi insultandosi figurati se.

Busso con energia sul pannello dell’autista e, mediante labiale, gli chiedo di farmi scendere.

Lui, Mister Tolleranza Zero 2013, mi risponde picche e racconta agli astanti di quella volta che dal più recondito pertugio del tipo dell’apixedda fu estratto un busto di Beethoven in grandezza naturale.

Sull’autobus si grida al sequestro. Una signora sviene. Le fanno annusare un’ascella, rinviene e inizia a dare del monellaccio all’autista, intimandogli di aprire le porte pena la negazione del pane e nutella che spetta per diritto di nascita a qualunque merendero italiano.

L’autista, minimalista, se ne fotte.

Improvvisamente, nel mio orecchio destro si materializza una voce. Profonda, virile.

“Continua a distrarlo”.

Soffoco un gemito, mi mordo un labbro e non mi volto. Voglio ricordarti così, come uno sconosciuto che mi sussurra cose turpi standomi alle spalle.

Se non fossi immune al fascino della cadenza dell’hinterland atlantidcitico, avrei già le mutande in mano.

Le sue.

Invece sfogo la tensione erotica inveendo contro l’autista e minacciando di chiamare i carabinieri se non ci fa scendere subito, seguita prontamente dal resto della popolazione femminile dell’autobus. Tolleranza Zero vacilla sotto l’assedio del pollaio di Babele, poi invoca Franco Baresi e torna a resistere: fuori dalla fermata, nessuna pietà.

Quand’ecco che dalle porte centrali si leva un sibilo decompressorio: Voce del mistero, approfittando della cagnara, ha trovato e sapientemente usato a nostro vantaggio la leva per l’apertura di emergenza. Scendiamo tutti, anche quelli che non dovevano, a sfregio, solo per il gusto di battere il cinque al Vialli di Maracalagonis e alzare la coppa in faccia all’autista.

Tolleranza Zero, Restodelmondo 1, a voi studio.