[legalize it]

Ora, per carità, io capisco che ad alcuni di noi feticisti il concetto di legalità possa ancora offrire emozioni profonde, anche fisiche. E non solo per l’impagabile brivido di aspettativa che regala il sentire, solo il sentire, lo scatto delle manette ai polsi.

Capisco anche che la sintesi sia una necessità da cui non si può prescindere, in un mondo che va avanti a botte di 140 caratteri e dopo 35 chi legge s’è già stufato.

Però chiamarla “ora legale” è fuorviante.

Il nome più appropriato, per un meccanismo perverso del genere, sarebbe più “Ora Di Mandare Affanculo ‘Sta Cazzata Degli Orologi E Tornare A Misurare Il Tempo Strofinando Due Legnetti, Che Io L’Ho Fatto Per Anni E Mi Ci Son Sempre Trovata Benissimo, Adesso Cos’è ‘Sta Mania Di Fare I Tecnologici, Tutti Saputi, Gente Che Non Sa Impostare Il Timer Per Scolare Il Brasato Ora Si Scopre Grande Esperto Di Tempologia, Siamo Un Paese Di Santi, Poeti, Navigatori, Commissari Tecnici Della Nazionale E Spostatori Di Quelle Cazzo Di Lancette, E Un’Ora Avanti, E Un’Ora Indietro, E Che Stamo A Balla’ Er Walzer, Un-Duè-Ttre Un-Duè-Ttre, Che Poi Uno Che Si Chiama Giovanni Struzzo, Ma Dico Io, Non Poteva, Vabbé, Lasciamo Stare Altrimenti Poi Mi Distraggo, Uh, Guarda, Uno Zebù, Che La Gente Poi Si Confonde, Se Proprio Li Volete, Gli Orologi, Fateli Fissi, Saldati, Che Non Solo Sia Impossibile Spostargli Le Ore, Ma Pure Che Se Solo Qualcuno Ci Pensa Gli Arriva Una Pendolata Atomica Sugli Incisivi, Sono Sei Etti E Mezzo Di Definizione, Che Faccio, Lascio?”.

Mi piacete perché siete perspicaci.

Da una settimana vagavo come un’alienata, capelli spriati e sguardo psicotico, ripetendo a fior di labbra “un’ora avanti, un’ora avanti, va spostata un’ora avanti, avanti, avanti, avanti”, l’altra sera ho incontrato Ghino di Tacco al Carrefour, gli ho messo tanta di quella paura che ha pagato la spesa.

Ieri notte alle due meno un quarto ero lì che disquisivo di come l’aggiornamento automatico dell’ora sul computer sarebbe stato foriero di catastrofi inenarrabili.

Le quali si sono puntualmente verificate.

Cioè, puntualmente è da capire.

La verità è che a me, contrariamente a Bruno Martino, l’estate piace molto. Quando finisce, mi sento un po’ come Enrico La Talpa in una celebre striscia che non riesco più a ritrovare, e che magari racconto dopo altrimenti qui non se ne esce vivi, che di quello di cui volevo scrivere veramente non ho ancora manco posato la prima lettera. Io la fine dell’estate la rifiuto proprio. La rifiuto al punto che mi tengo un paio di orologi settati sull’ora legale, tanto poi torna.

No, non mi dimentico che.

Quasi mai.

Il problema si presenta, appunto, quando arriva il momento di tornarci, all’ora legale. A Villa Balorda ci son sei orologi: uno ha le batterie scariche, uno è quello ricavato dal remix di “All we need is love”, uno è quello del computer, uno sul telefono, uno sul tablet, uno è un orologio orologiodapolsiforme che mi dimentico regolarmente di indossare, e poi c’è quello dello spazzolino elettrico. Quest’ultimo passa tutto l’inverno avanti di un’ora e venti: sessanta minuti per l’ora legale e venti per il tentativo fallito in partenza di non farmi arrivare in ritardo nei posti. Quando qualcuno va in bagno a casa mia, lo guarda e trova conferma ai suoi peggiori sospetti.

Se gli orologi cominciano a prendere iniziative, è la fine. Lancio qui e ora una proposta di crowdfunding: investiamo in ricerca. Facciamo sì che l’app a forma di post-it che ti appare sul display con la scritta “Oh, guarda che l’ora me la sono aggiornata da solo, sto a posto” veda la luce in tempi brevi. Io prendo il 33% di royalties sul totale della somma raccolta.

Nel frattempo, qualche fessa in stato confusionale continuerà ad arrivare al campo un’ora in anticipo e a rischiare l’infarto pensando di aver sbagliato posto.

La fredda cronaca:

Katia Ricciarelli Negli Stadi Tour 2014.

E potremmo pure chiuderla qui, fine del post, grazie a tutti, è stato indimenticabile, vi chiamo io.

Ma non renderebbe giustizia allo sforzo compiuto dall’artista. Lei, con tutto il carnet di date strazeppo, tra una Stabbing Mater a Wembley e un suicidio di Norma dal terzo anello di San Siro, snobbando l’invito a cantare l’inno all’inaugurazione del nuovo plastico di Tor di Valle, è riuscita a infilare questa matinée qui, al Santa Lucia di Panadia,

Ci teneva.

“Che culo”, azzarderebbero i miei piccoli lettori, se non fosse che la sublime ha già abusato ampiamente del termine facendovi rientrare, e non in senso figurato, gli oggetti più disparati. Non nel suo, beninteso, che ella è diva notoriamente casta, ma in quello dell’arbitro.
Repertorio completo, roba che una comitiva di scaricatori di porto rientranti dal turno di notte si è segnata passando e si è affrettata a rientrare in convento.

Alla fine del primo tempo ha già lessato i timpani a tutti.

Al 3′ del secondo tempo, fuori dal suo camerino, si è assiepata una discreta ressa di gabbiani e balene che si contendono un dopoteatro con lei a botte di corbeille di aringhe.

Al 15’, il CEO della Beghelli le si inginocchia davanti con un contratto di esclusiva sui richiami a ultrasuoni per cani da guardia.

In campo se le danno di santa ragione, due espulsi, due rigori, ammoniti q.b.
Le panchine si sputano in segno di reciproca stima. All’ennesimo fallo tattico, entrambi gli allenatori cercano reciprocamente di azzannarsi alla gola, ma si congelano sentendola illustrare una fantasiosa teoria sulla crema spalmabile più amata dagli arbitri a merenda.

Si girano completamente verso la tribuna.

Guardano il barile di salacche platinato che, circonfuso di soavità, si adopera perché l’intera classe arbitrale prenda coscienza della propria vocazione alla zoofilia estrema e ci dia dentro con gli elefanti sotto gli occhi affettuosi di Annibale e Moira. L’Associazione Parenti delle Semicrome Vittime di Abusi si costituisce parte civile.

Gli allenatori si guardano con la coda dell’occhio.

Lei cattura nuovamente la loro attenzione con un acuto che fa incrinare i finestrini dello Sligo-Brindisi delle 12.25. Le filature sulle u le vengono una meraviglia. L’unita di emergenza antirabbica chiama i rinforzi.

I due tornano a fissarsi le scarpe, poi azzardano sottovoce:

–          Ci è rimasta?

–          Purtroppo no.

–          È roba tua?

–          In che senso, scusa?

–          Tipo, è tua moglie?

–          Pensavo fosse la tua.

–          Ok, quindi possiamo procedere?

–          Al 3.

Uno.

Due.

E poi strillano con tutte le loro forze:

–          Deh, o suprema signora dei verri, ti imploriamo, fai cessare subitaneamente codesta litania molesta precorritrice di orchiti infiammatorie, lesioni personali gravi, omissione di soccorso, omicidio preterintenzionale e occultamento di cadavere.

(disponibile anche in lingua originale con e senza sottotitoli)

La divina, stranamente, s’impermalisce. Gira uno sguardo di fuoco sugli orchestrali e, non trovando supporto alcuno, tira su lo strascico del costume di scena ed esce dalla quinta senza più proferir verbo.

Tutto lo stadio:

–          Eccheccazzo, non potevate dirglielo prima?

Dura la vita del mister.

Come la dea vuole, la gara termina. I due allenatori, uniti dall’aver superato insieme l’esperienza traumatica, vengono a ritirare i documenti tenendosi per mano. Finisco il colloquio, l’arbitro è giovane, molto giovane, ma promette bene. C’è il sole. Nel mio futuro immediato intravedo un pasto caldo e succulento. E, volesse il cielo, mezz’ora di sonno a piombo.

Pag. 5 del “Manuale della tranvata”: mantenere i sensori puliti e sgombri da foglie, rametti, carcasse di topolini e lucertole, spugne, tappi di sughero, palle di alghe.

I miei sensori sono in corto dal sonno, le ultime risorse energetiche si sono esaurite durante il colloquio, l’Ucraina non s’è manco qualificata per i mondiali, figurati se hanno testa di dar retta a me che busso chiedendo se hanno due litri di gas da prestarmi. E poi mi sembra un’affermazione innocente.

–          Non preoccuparti, te lo mando io il modulo del referto, dammi la tua mail.

Nessuno è innocente.

Neanche una mail nome.cognome.annodinascita@.

Non se l’anno di nascita è il ’92.

Avverto distintamente lo sdoppiamento: una parte di me continua a scrivere quello che viene dopo la chiocciola, riesce a rispondere con proprietà a un altro paio di domande e addirittura a non dimenticarsi il telefono sul tavolo.

L’altra è rimasta paralizzata su quel numero. Cosciente, ma devitalizzata. L’unico movimento possibile è sbattere le palpebre, di tutto il resto non c’è più nulla che funzioni. Cuore, polmoni, tendini, niente risponde ai comandi. Che non partono, l’EEG è piatto. Un solo neurone si arrischia a dire che non è mica la prima volta che. Ha ragione. Non so cosa mi abbia preso, non mi prende mai così.

Non posso fare a meno di guardare l’arbitro in maniera diversa, adesso, e non solo perché mi sento le pupille larghe come piattini da frutta. Non posso fare a meno di chiedermi se anche tu sembreresti più giovane. Avrebbe senso, lo dicono anche di me, lo dicevano di tuo padre. Non posso fare a meno di pensare che anche tu avresti fatto un sacco di sport, e che adesso, a 21 anni e mezzo, avresti probabilmente le stesse spalle ben disegnate, le stesse gambe lunghe per andare lontano. E braccia che non mi hanno mai stretto.

Il debito d’ossigeno si fa sentire, ma non c’è verso. Ho il naso ostruito da una pietraia, la trachea sembra uno spot del deserto di Atacama, Jeffrey Dahmer s’è divertito coi miei polmoni.

Saluto avendo cura di non sembrare in apnea, forse riesco addirittura a sorridere, l’arbitro è stato bravo, se lo merita. Fortuna che almeno una delle due è in grado di camminare e portarci entrambe fuori di lì. Dagli spogliatoi al cancello ci saranno duecento metri. Troppi da percorrere allo scoperto, se nel frattempo ti si rovescia addosso un carico di favole non lette, libri non regalati, giochi non insegnati, sbaffi di gelato non puliti, ginocchia sbucciate non disinfettate, vasche e lettoni non condivisi, piedi non solleticati, sogni brutti non scacciati.

Sei una cretina, ripete quella che riesce a mettere un piede dopo l’altro senza cadere. Ti stai facendo male da sola. Non serve a niente, non puoi farci niente. Che cazzo ti è preso? Non ti prende mai così.

La pressione contro lo sterno è fortissima, non è che faccia quasi male, fa male proprio, da volersi strappare il cuore da dentro e calciarlo in meta, il campo è polifunzionale. Accelero, non so come faccio ma accelero, Amaranta come un tronco a cui aggrapparsi nella corrente furiosa e finalmente posso riversarmici dentro e piangere, piangere, piangere, piangere tutta la disperazione e l’abbandono di questo mondo.

E poi, piano piano, passa.

Non del tutto, ma passa.

[the bends]

– Buongiorno, vorrei del raso nero, doppia altezza, per favore.

– Ne tengo uno bellissimo alto tre metri. Diegarmando, vallo a piglia’ per la signorina.

L’accento partenopeo racchiude in sé lo spirito del commercio. A tutti i livelli, dal trasformare questo locale commerciale 400mq più servizi, luminosissimo, centralissimo, due vetrine fronte strada nelle viscere del Grand Bazaar di Istanbul, alla tratta dei bianchi operata quotidianamente sui traghetti da e per le isole.

Come se non bastasse l’essere stata appena dislocata geograficamente in almeno altri tre posti diversi dalla sola forza di una cadenza e di un’associazione di idee, la prospettiva dei tre metri d’altezza mi spalanca davanti uno scenario talmente meritevole di attenzione che mi sfugge completamente la domanda successiva. Solo quando Diegarmando torna con il rotolo e lo sbatte sul banco con l’inesperienza dei suoi diciassette anni, plano e capisco di essermi persa un pezzo.

– Dico, per-cosa-vi-serve?

Il mercante sa il fatto suo. Oltre ad essere curioso come una scimmia, sa che si viene qui perché non rifilerebbe mai un articolo inadatto pur di concludere la vendita. Ripete la domanda, perfettamente logica e prevedibile.

Di quella prevedibilità logica che coglie perfettamente impreparati.

Ciononostante, apro la bocca seguendo l’impulso primordiale.

Realizzo.

Mi blocco.

La chiudo.

Io ci provo, a star seria, ma sulla linea delle mie labbra ferve un movimento che manco sulla tolda dell’Hispaniola o nello studio del marito della Daniela Garnero: tira su, no, tira giù, cazza la randa, molla il pappafico, finché la forza di gravità capisce che la battaglia è persa, molla gli ormeggi e lascia che gli angoli della mia bocca si sollevino e puntino, inarrestabili, a bucare il soffitto.

E mica ti può andar bene sempre, cocca.

Il mercante di rasi non si scompone. È un omino arzillo sui sett…ott…novecentotrentasei anni, mese più, mese meno.
Mantenuto in forma dal manipolare quotidianamente le esigenze di dozzine di donne di tutti i tipi, tutte le età, tutti i colori e non è escluso che in alcuni casi abbia approfondito anche il versante sapori.
Aduso a soddisfare le richieste più strane:

– Mi serve del percalle per un bouquet.

– Il percalle lo usa per le lenzuola del corredo. Che tipo di bouquet deve confezionare?

– Di calle.

– Scemo io.

 

– Questo pile qui, ce l’ha anche con disegni di altri animali?

– Quello ce l’abbiamo con cagnolini, gattini, coniglietti, topolini, pulcini, elefantini e ranocchie.

– Iguane no? Devo fare il cappottino per la mia iguana, mica le posso mettere addosso un altro animale, si offende.

Da gentiluomo qual è, però, non può non apprezzare le sfumature della discrezione.
D’altra parte, il mercante di tessuti è come il medico, se non gli dici tutti i sintomi non può darti la cura giusta. Quindi.

– Devo fare delle bende.

Tecnica. Seria e professionale, gli angoli della bocca hanno smesso di treninare “brigitte peugeot peugeot” per il negozio trascinando matrone dallo scampolo facile e sarte segaligne poco inclini a scollare, e son tornati al loro posto.

– Delle bende tipo…mummia?

Il mercante si fa cauto.

– Nonno, quelle sono bianche, di lino. Queste le deve fare nere. Come quelle dei condannati a morte.

Diegarmando, una testa non del tutto sprecata a far da sostegno a barili di gel.

Ma è giovane.

È giusto che chi ha un potenziale abbia uno scopo, ma se procede prima del dovuto si smarrisce; se invece trova una guida e la segue otterrà il suo stesso beneficio (propizia è perseveranza).

Il mercante lo guarda con affetto, sorride e gli legge il futuro attraverso.

– Diegarma’, quella la signorina ha intenzione di farli morire, ma mica fucilandoli.

Mercante di rasi 4 – Resto del mondo 0.

O rei è ben saldo sul trono, Diegarma’.

[affari di famiglia]

Io la mia parte l’ho fatta.

Ho spostato le sedie, srotolato metà della pompa, preso in mano lo spazzolone, addirittura ho guardato con intenzione il flacone dello Spic&span.

Più di questo non mi si può chiedere.

Non quando la primavera mette in scena una prova filata impeccabile, a meno tre dal debutto.

Sole splendente che scalda forte senza bruciare, brezzolina leggera profumata di mare, cuscinone da terrazzo che mi guarda invitante. Cosa potrebbe mai sopraggiungere a turbare il godimento di un abbraccio reciproco, languido e pigro?

Il maledetto squillo del maledetto telefono, ecco cosa.

Ora, quando il telefono squilla con la suoneria de “Lo squalo”, che non mi sono mai sognata di scaricare, sale in zucca vorrebbe che l’utile attrezzo venga scagliato all’istante il più lontano possibile mentre ci si butta a terra dietro la prima cosa utile a ripararsi dall’esplosione, senza manco pensarci.

Il sale in zucca.

Vacca miseria, ecco cosa mi son dimenticata di comprare.

–          Domani vieni a cena, sì?

Tutto il tepore di poco fa si è ritratto come un paguro. Un pinguino mi chiede se ho mica una termocoperta da prestargli, che solo con la tuta da sci c’è da battere i denti.

–          Ciao mamma.

–          Non arrivare tardi come al solito, lo sai che tua cognata ci tiene a cenare puntuali.

Mi si surgela il midollo spinale lungo la schiena. “Cognata” e “cenare” nella stessa frase delineano una concatenazione di crimini efferati contro l’umanità, con la sottoscritta nello scomodo ruolo dell’umanità. Già mi ci vedo, in corsa per l’Oscar:

–          Oscardiniamo er pancreas? Tanto ormai è spacciata, chissà dove l’ha presa tutta questa stricnina.

–          Dici che è stricnina? A me pareva più minestrone.

–          Ci metti le uova crude, nel minestrone, tu?

–          Gesù, che schifo, no! Piuttosto mi prenderei la stric…oh.

 

Non dico di voler imporre la mia presenza sul pianeta a tempo indeterminato, ma qualche altra settimana di vita vorrei godermela.

–          Non posso, mamma.

Dall’altra parte, in sottofondo, comincio a sentire un certo tramestio, come di gente che si litiga il telefono.

–          Come sarebbe, non puoi? Cosa devi fare che non puoi? Leva quella mano, tu.

–          Sono designata, non posso.

–          Ma se è mercoledì sera!

–          Sono designata in Champions.

Ci pensa. Le scoccia moltissimo passare per quella non informata, ma le scoccia di più abbassarsi a chiedere. Nel frattempo, il tramestio in sottofondo aumenta. Colgo distintamente un “passamela” e un principio di colluttazione.

–          Passi abbandonare la tua povera madre malata senza uno straccio di – togli la mano, ho detto, sto parlando io – compagnia e conforto, ma è la festa del papà, almeno lui, pover’uomo, pensa se fosse la vostra ultima occasione per veder… insomma, la pianti di bofonchiarmi nelle orecchie, tu, toh, te la passo, così la smetti. E togliti la mano dalla tasca.

–          Ciao papà.

–          Ciao. Volevo solo dirti che non fa niente se non vieni a cena, domani ser…

–          Ma come, non fa niente, ma certo che fa, tu da che parte stai? Se non la incastri così col cavolo che riusciamo a vederla, tua figlia! E poi ci sono anche i genitori di Zippa, e il fratello di Zippa con la fidanzata, tutta la famiglia di Zippa al completo e noi che figura ci facciamo?

–          …però se per caso riesci a fare una scappata A PRANZO, anche se siamo SOLO NOI TRE, mi farebbe piacere.

–          Contaci. Ti voglio bene, papà.

–          Anch’io.

Lo dice ridendo come un cretino, non posso esimermi dall’andargli dietro. Finché la voce della ragione non riprende possesso del telefono.

–          Anch’io ve ne voglio, anche se siete due imbecilli. Ma almeno a nessuno può venire in mente di dubitare che sia figlia tua.

 

 

[airport 80 (voglia, disco, ecc.)]

Arrivo in aeroporto con la grazia della palla di cannone del barone di Münchausen.

Skopjie si è rivelata una città particolarmente ospitale, addirittura più di quanto mi aspettassi. Forse sono macedone dentro, chi lo sa. E sì che furba non sono, al limite contrabbandiera.

(questo con buona pace di chi ogni tanto fatica a inquadrarmi dal punto di vista etnico. Difficilmente mi danno dell’italiana, il che – quando sei all’estero e gli unici connazionali nei paraggi si fanno un vanto di dimostrare la propria appartenenza al genere subumano – torna a vantaggio, è fuor di dubbio. A volte un rigurgito di amor patrio mi spinge a rivendicare puntigliosamente le origini, giusto per sollevare negli interlocutori il dubbio che esistano effettivamente abitanti di quel buffo paese stivaliforme che sanno leggere e scrivere (sorvolo abilmente sul far di conto), comunicare anche senza il supporto audiovisivo di Rutto 2.0, non teledipendenti e capaci – udite udite! – di afferrare senza troppo sforzo concetti astrusi tipo “fila”, “silenzio” e “cestino dei rifiuti”. Di solito ci guadagno occhiate sbigottite seguite immediatamente da grasse risate e proposte di tournée del mio spettacolo comico nei maggiori teatri del posto, che Bill Hicks mi perdoni. Una volta sono persino stata invitata al Convegno Intergalattico degli Autori di Narrativa di Fantascienza, solo che ai partecipanti è andato in cuffia per errore l’audio della traduzione del poeta Vogon che teneva il suo intervento nella sala affianco e non mi hanno più cercato.

Comunque finora le ipotesi più accreditate mi vedono bene come bretone, forse per via dell’età, o nordafricana in genere. Che, voglio dire, passi per i bretoni, poveracci, ce ne saranno di particolarmente racchi anche lì, ma di norma son di aspetto assai piacevole, anche se hanno nomi da compagnia aerea o rimedi per il singhiozzo. Ma giusto un bauscia di provincia potrebbe prendermi per africana. Eppure.

Esselunga del Lorenteggio, qualche anno fa.

Fine luglio. Un caldo pesante e zozzo appena mitigato dagli scarichi delle auto. Nebbiolanum, in pieno oscurantismo morattiano, era ancora ben lontana dal riconoscimento del diritto civile al girare nudi per strada come usa d’estate in tutti i paesi civili. Al confine veniva consegnato un necessaire contenente:

  • n°1 tailleurino al ginocchio, 70% teflon, 30% calcestruzzo, non candeggiare né centrifugare
  • n°1 filo di perle d’ordinanza
  • n°2 caricatori di bigodini calibro 9
  • n°1 tanica di Altolàlsudore, un preparato chimico prodotto dai Laboratoires Mengeles che sigillava le molecole sudoripare e le liberava solo una volta saliti sulla metro all’ora di punta, altro che kamikaze.

Lo spacciavano per set di cortesia, in realtà era un’azione dei servizi leghisti per scoraggiare l’immigrazione.

Forte del mio passaporto diplomatico fenicio, attivo l’opzione Catafotting e vado a fare la spesa indossando l’unica tenuta che il mio organismo tropicale possa tollerare: una djellaba nera che monta sandalo minimo e la solita faccia da culo.

Arrivo in cassa col carrello pieno di taleggio e polenta e mi metto in fila.

Tempo sei secondi, un omino sopraggiunge e mi passa davanti come se non esistessi.

Poche cose mi fanno imbestialire come quelli che saltano la fila.

Carico la tetta destra e gli invio un messaggio telepatico.

Non riceve.

Tossisco in maniera talmente plateale che mi fischiano il fallo di ostruzione dal Maracanà.

Niente.

Gli do un’ultima possibilità prima di silurarlo, mi avvicino e, con la massima educazione consentitami da un istinto omicida al cui confronto il mostro di Milwaukee è una mammola, gli dico: “Mi scusi, c’è una fila”.

Lui chiama a raccolta tutto il disgusto di generazioni di Borghezi (antica popolazione barbarica dedita al brutale sterminio dei neuroni, decimata dalle malformazioni genetiche dovute all’accoppiamento tra consanguinei ed estintasi definitivamente per una banale allergia al Cif Ammoniakal), mi guarda come se, pregustando una scorpacciata di cassoeula, scoperchiasse la zuppiera e ci trovasse dentro una cacca di rinoceronte, e strilla con voce querula:

Tornatevene a fare la spesa nei vostri negozietti luridi!”.

Senza voce querula non rende.

Lo asfalto senza manco pensarci al grido di “per il mercato di San Benedetto, che è più pulito di quel letamaio di casa tua, e per la barba del profeta!”, giusto per non far torto a nessuno)

Stavo dicendo?

Ah, sì. L’aeroporto.

Mi catapulto al metal detector mentre chiamano il mio volo. Davanti a me, due file: una di dromedari stanchi e una di dromedari morti.

La prima mi vedrebbe in decima posizione, la seconda in quinta (e cinque, sei, sette e otto, arabesque!).

Intuisco la trappola.

Temporeggio.

La fila dei morti è completamente ferma in attesa che i parenti dell’ultimo defunto si presentino per celebrare le esequie.

La fila degli stanchi si è appena fermata per un decesso, si aspetta il coroner per rimuovere la salma.

La scritta “now boarding” all’altezza del mio volo comincia a lampeggiare sul monitor.

Il 7° Panzerdivisionen, nel senso di tedesco di cui, a due metri dal suolo, si intravedono (intravvedono? questa cosa va chiarita) le ginocchia, e con una panza tale che pure a dividerla ne resta abbastanza per tutti i presenti, mi toglie dall’imbarazzo e mi sistema d’ufficio nella fila degli stanchi con un colpo di pancreas.

Ottava.

Davanti a me una neopatentata, un vecchio col cappello, una signora fresca di messa in piega, un coatto con le lucette di Kit che con una mano telefona e con l’altra si scaccola, una monovolume con tre seggiolini e l’adesivo “Briciole a bordo”, una trebbiatrice col rimorchio e un camion della spazzatura.

Solo non si vedono i due liocorni.

Sparo alla neopatentata, mostro una foto di Miss Marple nuda al vecchio, sussurro alla signora con la messa in piega che mi pare stia salendo un po’ di umidità.

Quinta.

No, non ho cambiato misure.

Dall’altoparlante arriva l’ultima chiamata per il mio volo.

Scalo in quarta, poi in terza, imbocco l’ultima curva della serpentina in piena accelerazione lesmica, il rimorchio della trebbiatrice sbanda, la supero, comincio a sfilarmi la cintura, dall’altoparlante una voce spigolosa pronuncia il mio nome seguito da volgari insinuazioni su come starei impiegando il tempo invece di presentarmi all’imbarco, il camion della spazzatura rientra ai box, accelero ancora, sono in testa, sento i jeans che scivolano ma non posso tenerli su perché ho le mani impegnate a spingere dentro la valigia, faccio per oltrepassare lo scanner, “BOARDING CARD!”, mi intima la guardia, “IT’S INSIDE!” urlo di rimando, aggiungendo a voce non troppo bassa “eccheddick, you fucking cretin, me l’ha controllata la tua collega venti metri fa, altrimenti non sarei qui”, “BOOTS!” si vendica la guardia, “ARE MADE FOR WALKING!”, la so, cazzo ti credi, mica mi freghi così, “WHAT??”, what the fuck, me li tolgo anche se non suonano, la voce dall’altoparlante chiama “Passenger Outsider please plant of chinchinsk and move your fat ass to gate 16 for immediate boarding”, e poi.

E poi succede che mi distraggo e subentra il pilota automatico.

Sarà capitato anche a voi.

(insieme a una famiglia problematica, forse, ma tanto espansiva)

Ci sono gesti che il cervello abbina automaticamente a certe attività, è una cosa elementare, il cilindro rosso nel buco rosso, premi “installa” e il coso lì fa tutto da solo.

Spogliarsi è uno di questi.

Spogliarsi in fretta lo è ancora di più.

Vaporizza indumenti”, nella mia mente ferrodastiroavulsa, è un processo che presuppone intensa attività ludica nel giro di tre picosecondi. Se viene innescato, le sinapsi si concentrano sullo zuccherino e perdono di vista il resto, mentre le mani vanno avanti da sole il più velocemente possibile, secondo un protocollo stabilito.

– STOP! STOP! THIS IS NOT NECESSARY!

L’urlo della guardia mi blocca con le braccia per aria e la maglia sfilata per tre quarti. Eppure la sequenza era giusta: cintura, stivali, maglia, a seguire jeans, reggiseno e mutande.

Oddio, le mutande.

So cosa state per dire, invece ce le ho.

Sul treno per l’aeroporto mi ha chiamato mia madre.

– Stai rientrando?

– Sì, mamma.

– Vieni a cena, quando arrivi?

– No, mamma.

– E perché?

– Non lo vuoi sapere, mamma.

– Che il Signore abbia pietà di me e mi porti presto al suo cospetto, visto che in questa vita non mi ha dato la gioia di una figlia amorevole capace di trovare il tempo per star vicina alla sua povera madre malata prima che sia troppo tardi. Mettiti un paio di mutande pulite prima di salire sull’aereo, sai mai faccia un incidente.

Quindi sì, per forza ho addosso delle mutande.

Al rovescio, ça va sans dire.

Turchesi.

Trasparenti.

Col pizzo verde acqua.

E un fiocchetto.

Vorrei dire “improponibili”, ma mentre sto lì con le braccia ancora incastrate nella maglia sento che i jeans, privati della cintura, cedono alla forza di gravità, ed ecco che dette mutande, ahimé, si propongono.

Dall’altoparlante esce solo “Jesus Christ, Sider”, ma non credo vogliano convocarmi per un’audizione.

Approfitto dello smarrimento collettivo, salto in groppa a Panzer, lo frusto con la cintura, che si capisce che gli piace, e lo lancio al galoppo.

Non perdo il volo.

L’aereo non cade.

Sta a vedere che ‘ste mutande improbabili portano pure fortuna.

[we are family – extended version]

–          Ciao, sei a casa?

Se ci badate, quando guardate i documentari sui coccodrilli, noterete che ce n’è sempre uno sullo sfondo che pare trovarsi lì per puro caso. Uno anziano, canuto, con l’aria di chi ha fatto il proprio tempo e ormai aspetta serenamente la sua ora facendo la calza e guardando con indulgenza gli esemplari più giovani sbocconcellare turisti incauti aromatizzati all’Autan.

È il più pericoloso di tutti.

Ed è mia madre.

Ci eravamo sentite la sera prima. Dopo venti minuti di aggiornamento clinico intervallato da grandi “uhm” di partecipazione, ho fatto la cazzata. L’ho messa in vivavoce. Per strano che possa sembrare, ero in ritardo, e ho ritenuto che vestirmi usando tutte e due le mani potesse non solo accelerare le operazioni, ma anche evitarmi di essere scambiata per la testimonial di Pitti Immagine Profugo.

Ovviamente la cazzata non è stato farlo, ma dirglielo. L’ha presa benissimo.

– No, no, figurati, vai pure, non voglio mica annoiarti se hai cose più importanti da fare che ascoltare la tua povera madre malata. Ti lascio ai tuoi impegni mondani. Io ora registro un videomessaggio per Studio aperto e poi apro il gas. Divertiti, eh.

Il venerdì 17 non ha levato le mani di tasca fino all’alba, per sicurezza.

Fatto sta che sentirla di nuovo dopo meno di ventiquattr’ore è un ottimo segno, se siete i quattro cavalieri dell’apocalisse e vi piacerebbe sbrigare il lavoro in tempo per farvi una pizza fuori con gli amici, visto che è sabato.

–          Sì, sono a casa.

Sono a casa e sono un’idiota. Essere andata a dormire alle quattro e mezza non è un’attenuante.

(anvedi ‘sta smutandata, diranno i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Per la precisione, il bordo della cassapanca che sta in testa al mio letto, quello sul quale dò craniate a ripetizione – a volte anche di piacere, lo ammetto: immaginate la sensualità del rituale dell’accoppiamento del facocero, il clou dell’azione, un crescendo di grugniti, grufolii e giravolte spaziali, e improvvisamente un sonoro STOCK! di cui nessuno si cura fino a che il parossismo di passione si placa e l’unico turgore residuo è quello del bernoccolo sulla mia nuca.

Ma non era di questo che stavamo parlando.

Stavamo parlando del fatto che da una ventina di giorni Grogu si crede una sveglia. Puntuale come un orologio atomico, alle 04.55 lei suona. Tutte. Le. Sante. Notti. E io la finisco a battere i quarti sul bordo della cassapanca dalla disperazione. Non c’è verso di disinnescarla. Lo snooze non le funziona. Ho provato a resettarla, niente. Spegnerla contro il muro come una normalissima sveglia pare brutto. Perciò l’altra notte ho deciso che sarei rimasta sveglia per non farmi svegliare. Non chiedetemi cos’ho detto, però ha funzionato. Ne ho solo risentito un po’ in lucidità e tempi di reazione, per cui Madre mi fa una domanda appena sveglia e io – in barba a qualunque istinto di sopravvivenza – rispondo la verità)

Una perfetta idiota, quindi.

Nessuna domanda di mia madre è mai innocente, oziosa o casuale.

Nessuna.

Mai.

Se la conosci, inventi una risposta che nulla abbia a che fare con la realtà.

Se la conosci, non ti uccide.

Ma non faccio in tempo a preoccuparmi della visita imprevista di un coccodrillo. Basta cazzate, stavolta è seria.

– Tuo fratello si è fatto male al lavoro. Non sappiamo ancora niente, solo che lo stanno portando al Marino. Stiamo andando lì.

Il peggior déjà-vu del mondo. Qualcuno avvisa qualcun altro che qualcun altro ancora si è fatto male. Qualcun altro si precipita in ospedale senza sapere niente, tantomeno che è troppo tardi. Pelle d’oca a mille, capelli dritti. In tre minuti sono al pronto soccorso che paio un pesce istrice.

Lì, lamenti, lacrime, imprecazioni. Gente incazzata, rassegnata e depressa. Praticamente la curva sud di San Siro. Di Zippo, nessuna traccia.

Non so se ve l’ho già detto, ma Zippo è fratello unico. Da piccolo lo definivano “un bambino vivace e cagionevole di salute”. In effetti di malanni se ne cagionava parecchi, tipo quella volta che decise che pestare con un batticarne sul vetro della finestra era un gioco furbo.

Sì, a casa nostra mio fratello è quello normale.

Quella volta lì il vetro doveva essere difettoso, perché si ruppe; il bambino vivace se la cavò con una scheggia affilata ma intelligente quanto lui, sei punti e una cicatrice due millimetri sopra le vene del polso.

Ora, è vero che la mia esperienza come educatrice si limita a far avvicinare al debito pubblico del Pongo Belga la quota che Cognata devolve mensilmente in tinture per mascherare i capelli bianchi che le faccio venire giocando con Nipote alla piccola pusher. Però se un bambino tende a cagionarsi problemi di salute di questo tipo, persino il metodo Montessori prevede che possa essere curato a papagni dietro le orecchie. Ecco, Zippo di papagni dietro le orecchie non ne ha preso abbastanza, quindi potete capire con quale spirito – déjà-vu a parte – mi appresti a chiedere di lui in un pronto soccorso. E poi è una questione di responsabilità, sono la sorella maggiore, non intendo sottrarmi alle mie. Se c’è da smontarlo, lo faccio con le mie mani.

Dopo tre giri a vuoto dell’ospedale, un piede infilato nella porta del triage e la minaccia da parte della guardia giurata di spararmi se non mi placo, non l’ho ancora trovato. Sono sempre un pesce istrice, solo ora grosso quanto un mammuth.

Finalmente becco un tipo dell’ambulanza che l’ha portato lì. Niente di che, mi spiega, ha cercato di colpire di testa un bancale senza riuscire a mandarlo in rete, e poi il compagno del bancale, vedendolo smarcato in area, gli è crollato addosso. L’arbitro interrompe il gioco, assegna il rigore e fa entrare i barellieri.

Capisco subito che qualcosa non torna, Zippo sul lavoro è sempre stato attentissimo. Nel frattempo si affaccia un’infermiera. “È cosciente”, mi dice. “Se vuole può vederlo”. Son talmente inquieta che evito di risponderle che se è cosciente dev’essere il fratello di qualcun altro.

– Ciao fratellino.

– Ciao sorellona.

Ho un’amica dentista che sulle carie ci campa una figlia e due cani. Credo che il paradiso lo immagini così. Ma la verità è un’altra.

– Brutto stronzo.

– Hai un taglio in faccia.

Convenevoli, spunta come: fatto.

– Prima che arrivino mamma e papà, dimmi la verità. Perché l’hai fatto?

– Fatto cosa? È stato un incidente.

– E io sono Madre Teresa di Calcutta.

Si guarda le mani. La sinistra. Quella dove porta la fede. Stringe le labbra .

– Ma scusa, non avete una rosticceria affianco a casa?

– Tu non capisci. Lei è convinta di essere brava. Martedì…

La voce gli trema. Fissa un angolo del soffitto per un istante che pare eterno, poi manda giù il magone e riprende.

–          Martedì ha rifatto il polpettone. In crosta.

Devo sedermi. Da una radio in astanteria, Renato Zero attacca dolente “Il polpettone va avanti da sè”.

– Mercoledì l’ho usato per stuccare una crepa. Giovedì ci ho concimato il radicchio che, vabbè, s’è seccato, venerdì ne ho dato una fetta al vicino che andava a pesca e aveva finito il trimuligione, ma ce n’è ancora. Mi son detto basta, la faccio finita

– Finita cosa? Ohi, figlio mio, che brutta cera che hai.

Zippo cerca le chiavi in tasca dimenticandosi che non è stato lui a guidare l’ambulanza.

Per un numero imprecisato di ore aspettiamo che gli facciano la Tac. Nostra madre ci intrattiene raccontando di come suo padre sia morto di emorragia cerebrale un mese dopo un colpo preso in galleria, “proprio nello stesso punto dove l’hai preso tu, eh”.

Scopro che al bar del Marino il Cucciolone è al gusto zabaione, cioccolato e speck, non male. Ascoltiamo le partite dalla radiolina della guardia. Mamma ha una parola buona per tutti, un ragazzo con un taglio superficiale alla mano, dopo il suo conforto non richiesto, esce e si butta sotto un camion. Alla fine Zippo viene portato su e risceso dopo un altro paio d’ore insieme a sette radiografie, di cui una non sua.

–          Non ti sei rotto niente?

Mamma, con un filo di delusione.

–          Solo le palle.

Zippo è il figlio ammodo, quello che ha messo su famiglia nella grazia del Signore e ha prodotto Nipote, quindi qualunque cosa gli esca dalla bocca è buona e giusta. Io, se provo a dire “cacca”, mi becco uno shrapnel in mezzo agli occhi. Nel frattempo è arrivata anche Cognata, che subito s’informa sulle questioni vitali.

–          Ora che arriva a casa può mangiare, vero?

Zippo salta in braccio al medico, mezzo metro più basso di lui, creando un elegante effetto jabot.

–          Giusto qualcosa di leggero, signora. Riso in bianco, brodo, cose così.

–          Ma non gli basta, deve ristabilirsi! Ci vuole qualcosa di più sostanzioso!

Lo jabot, nessuno ci aveva fatto caso, ma è scorsoio.

–          Suo marito ha subito un brutto trauma, signora, se l’è cavata per il rotto della cuffia. Non deve affaticarsi, neanche dal punto di vista digestivo.

Cognata lo guarda con la riconoscenza di colei a cui hai infilato una blatta nelle mutande.

–          Quindi fra quanto potrà riprendere con un’alimentazione normale?

Il medico sbircia Zippo con la coda dell’occhio.

– Direi almeno una settimAaah! Una setti…cemia da cibo pesante potrebbe essergli fatale, nel suo stato, temo che a certi piatti dovrà rinunciare per sempre.

Zippo solleva lo scarpone antinfortunio dai calli del dottore.
Cognata telefona alla madre, in lacrime.
Mamma augura buona fortuna a chi è ancora in fila al triage.
Il pesce istrice sente gli aculei rientrare.
Leva i plum cake di Cognata che usa come fermo per le ruote della macchina e se ne va a casa a farsi una doccia bollente per scacciare l’ultimo brivido.

[we are family]

– Ciao, sei a casa?

Se ci badate, quando guardate i documemtari sui coccodrilli, noterete che ce n’è sempre uno sullo sfondo che pare trovarsi lì per puro caso. Uno anziano, canuto, con l’aria di chi ha fatto il proprio tempo e ormai aspetta serenamente la sua ora facendo la calza e guardando con indulgenza gli esemplari più giovani sbocconcellare turisti incauti aromatizzati all’Autan.

È il più pericoloso di tutti.

Ed è mia madre.

Ci eravamo sentite la sera prima. Dopo venti minuti di aggiornamento clinico intervallato da grandi “uhm” di partecipazione, ho fatto la cazzata. L’ho messa in vivavoce. Per strano che possa sembrare, ero in ritardo, e ho ritenuto che vestirmi usando tutte e due le mani potesse non solo accelerare le operazioni, ma anche evitarmi di essere scambiata per la testimonial di Pitti Immagine Profugo.

Ovviamente la cazzata non è stato farlo, ma dirglielo. L’ha presa benissimo.

– No, no, figurati, vai pure, non voglio mica annoiarti se hai cose più importanti da fare che ascoltare la tua povera madre malata. Ti lascio ai tuoi impegni mondani. Io ora registro un videomessaggio per Studio aperto e poi apro il gas. Divertiti, eh.

Il venerdì 17 non ha levato le mani di tasca fino all’alba, per sicurezza.

Fatto sta che sentirla di nuovo dopo meno di ventiquattr’ore è un ottimo segno, se siete i quattro cavalieri dell’apocalisse e vi piacerebbe sbrigare il lavoro in tempo per farvi una pizza fuori con gli amici, visto che è sabato.

 

 

[alla destra di moccia]

Rega’, non è vita, questa.

Ci avevano avvisato, ma un conto è sentirlo raccontare. Per affidabili che tu possa ritenere i colleghi di mezza Europa e degli States pensi sempre “se, vabbè”.

Un conto è vederlo con i tuoi occhi.

Il nostro è un lavoro delicato, rischioso. Riconosciuto solo se per caso qualcosa va storto, quando tutto fila liscio, mai. Ci sta che un minimo d’importanza ce la diamo da soli. Ci sta anche colorirlo un po’.

Non stavolta.

Sono ovunque.

Sotto il tavolo della conferenza stampa.

Aggrappate ai lampioni.

Dietro le tende.

Scopri il letto e ce ne trovi una.

Sollevi il coperchio del water e ce ne trovi altre tre.

Armadi e cassetti non ne parliamo.

Due erano riuscite a infilarsi dentro i croissant della colazione.

Escono.

Dalle fottute.

Pareti.

E strillano.

Dio pirata se strillano.

Strillano tenendo sotto assedio l’hotel che le senti attraverso i vetri insonorizzati della suite presidenziale.

Strillano nella hall dell’aeroporto mandando in tilt la torre di controllo.

Strillano quando arrivano a frotte alla stazione Termini da tutta Italia. Due della Polfer chiamati a scortare il treno da Milano non fanno in tempo a toccare terra che vomitano sui binari. Hanno strillato per tutto il viaggio, dicono.

Strillano mentre cercano di intrufolarsi in hotel nei cesti della biancheria sporca.

Strillano mentre lo succhiano al lift nella speranza che le lasci salire.

Strillano all’annuncio che il concerto verrà spostato perché le Capannelle non bastano più.

Strillano all’annuncio che forse non basta manco l’Olimpico.

Che cazzo di polmoni c’hanno queste, vorrei sapere.

Le guardi e sembrano degli scriccioletti innocenti, qualcuna non arriva ai dodici anni. Ma non ti puoi fidare, ieri notte, tra quelle arrivate prima per prendere il posto sotto transenna, ci sono stati otto morti e diciannove lacerocontusi. Mica che si son calpestate. Due sono state sgozzate, cinque strangolate col filo elettrico. Una dalla sorella. L’ultima s’è arrampicata su una torre Layher e s’è buttata di sotto urlando “Ho vissuto per questo momentooooh!”.

Un ronzio nell’auricolare. Ai posti.

Ci siamo.

Cambiamo canale ogni trenta secondi con un algoritmo messoci a disposizione dalla Nasa per l’occasione. Abbiamo sei squadre di sosia pronte a ogni uscita, compresa quella del tunnel scavato in due giorni da un’equipe dell’Abate Faria Inc. che porta direttamente dal caveau dell’albergo al palco. Una delle squadre si lancerà in parapendio dal tetto dell’hotel per creare un diversivo, un’altra passerà dalle fogne a bordo di microscopici sottomarini gialli.

Ma queste non le freghi. Hanno sensori dappertutto e l’olfatto di un Bombix mori.

E strillano, cazzo.

L’onda d’urto spalanca le porte e ci depila e denuda completamente. Del concierge restano pochi brandelli di carne e due nappine appese allo scheletro. Tutti gli antifurto della costa tirrenica si producono in una versione death samba di “Real to real cacophony”. In Boemia viene dichiarato lo stato di calamità naturale. I cani niente, già sterminati qualche giorno fa in quell’incidente con Pallotto, una prece.

Loro, impassibili.

Non loro le fan. Quelle piangono, ridono, lanciano mutande e mazzi di fiori, si strappano capelli propri o altrui, svengono con e senza esse. Il tutto senza smettere di strillare.

No, loro-loro.

Sarà che ormai ci avranno fatto l’abitudine, ma non gli si muove un pelo. Si avviano impeccabili, in fila per uno, tra due barriere jersey di muscoli (che saremmo noi, modestamente). Sulle strisce pedonali.

E si fa improvvisamente silenzio.

Giovanni.

Cammina tranquillamente fino alla limousine e ci si accomoda dentro pacifico senza che nessuno se lo fili di pezza.

Spiazzamento nell’entourage.

Riccardo.

Idem come sopra. Se fosse uscito il garzone del bar di fronte avrebbe suscitato più clamore.

Potrebbe essere una trappola, allerta massima.

Ma basta che la prima ciocca brizzolata faccia capolino e il frastuono riattacca decuplicato.

“Paolo, le legioni ti salutano”. “Magno, bevo e tifo Paolo”. “Paolo sposami”. “Pur’a me”. “E io che so’, la figlia della serva?”. “Paolo, la poligamia è un’opinione”. “’sto Penthouse aspetta a te”. “Paolo ottavo re di Roma”. “Ma no, quello era Amadei!”. “Sì, ma ha liberato il posto apposta”.

Arginarle è un’impresa, contenerle impossibile. Le prime file si lanciano a corpo morto nella speranza che il loro sacrificio possa valere lo sfioramento di un lembo di giacca a quelle dietro di loro. Gli idranti non bastano, ai coccodrilli del fossato li prendono a pernacchie, i cavalli di Frisia son più terrorizzati loro.

Per la prima volta nella mia carriera pavento la disfatta. Spero almeno di morire nell’adempimento del mio dovere e di portarne con me qualche migliaio quando lui sporge lateralmente una mano.

Subito gli viene consegnato un panino con provola e salsa piccante.

Fa segno di no con la testa.

Il panino con le sue impronte digitali viene conteso e smembrato tra quelle che ora sono le fiere e mutilate titolari di una briciola ciascuna.

Sporge nuovamente la mano.

Gli viene porto un gelato. Lo lecca perplesso prima che gli spieghino che si tratta di un microfono.

Guarda la folla strillante e straripante. Guarda noi che stiamo per soccombere. Nel frattempo Giorgio è trotterellato verso la limousine dagli altri tra l’indifferenza collettiva. Tre sguardi interrogativi in direzione dell’hotel, lo sportello aperto in attesa.

“Non preoccupatevi per me, ragazzi”, grida per sovrastare il frastuono. “Pensate a salvarvi, vi copro io”.

Occhi negli occhi. Un cenno del mento. È stato bello. La limousine si allontana come fosse una panda qualunque.

Siamo allo stremo. Resistiamo con i fumi delle braccia. Il fair-play è a puttane. Per ogni sciamannata che riusciamo a placcare e convincere pacatamente a ombrellate a tornare indietro, trenta si fanno avanti. Ho in mano una tibia e non so di chi sia.

Picchietta sul microfono. Alza un pollice in direzione del fonico per chiedere il massimo della potenza.

Poi attacca con “Help yourselves!” ed è il delirio.

(non chiedetemi cos’ho scritto perché non lo so. So solo che qualche modo dovevo sfogare l’elettricità prima che arrivasse questa notizia. Belle, bellissime sorprese e persone che se le meritano, esse esistono)

D’accordo, è uso privato di mezzo pubblico.

Ed è ignobilmente out o’referenziale.

E il fatto che il blog sia mio potrebbe pure non significare una fava.

Però, ecco, ci tenevo a condividere con voi questo momento.

Non ho ancora avuto modo di guardarla con attenzione,

ma

sembra

proprio

che qui in cima al collo

ci sia la mia solita faccia da culo.

Non ci resta che il passamontagna.

 

542812_4539932990472_126394168_n

 

[che abbiamo visto genova]