[comics]

Già solo per la coda di questo brano valeva la pena arrivare in fondo a questa giornata.

(tornare a casa – tardi, tanto per cambiare, e fame e sete e il mio regno per una vasca – pedalando piano su diapositive che scorrono random, apparentemente random – telefonate a bassa voce/il pino (minuscolo) fuori dalla finestra/i fresco della notte/il freddo boia della notte/il caldo umido della notte/risate. inarrestabili/i Giardini di Mirò/caffé (zitta, non dire niente)/la luce del pomeriggio tra i cazzo di rami bassi/lo strappo nei tuoi jeans/lo strappo nella tua maglietta/gli strappi addosso a me/le pale eoliche/una cosa sul Preikestolen che mi son dimenticata di dirti a proposito di sabato scorso/quella cosa che non abbiamo mai finito/tutte le cose che vorrei fare/quelle che non posso più fare/passeggiare per una bellissima città toscana che preferivi quando c’era decisamente meno gente/ascoltarti raccontare/sorrisi allo stato brado/vari tipi di nostalgia/correre a perdifiato per disperdere il sovraccarico di gioia/Cantagallo/Annus Horribilis ogni vent’anni vs. Very Special People ogni dieci (il bilancio è comunque in attivo)/quello sguardo/gustarsi il tormento (due deficienti) – e tra una cosa e l’altra pensare che ‘sto titolo ha un po’ di Neil Gaiman, ma pensa te)

[what a carve up!]

Vi capita mai di pensare a dove vi trovavate e/o cosa stavate facendo in qualche preciso momento che sarebbe poi entrato nella storia?

Per esempio, io ho un ricordo nitidissimo di dove mi trovavo allo scadere dell’ultimatum delle BR durante il sequestro Moro, al momento del crollo del WTC e della rete di Altobelli all”81′.

Capisco che la cosa catturi il vostro interesse come poche altre al mondo.

Peggiorerò la situazione.

Ho appena finito di leggere “La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe.

Un libro spettacolare. Non sarò certo io a rovinarvi il piacere di leggerlo (so che non si direbbe, ma amo le sorprese di un amore supremo). Vi basti sapere che la fascetta che lo accompagnava, quando è stato scoperto dal mio pusher, recava scritto: “Questo libro è stato stampato due anni fa, pochi lo hanno comprato, ancora meno lo hanno letto. Ma è un libro molto bello. Fidati”. Io mi sono fidata della persona che me l’ha suggerito, e non solo perché è geniale come poche altre: voi fidatevi almeno della fascetta. Lasciate stare il fatto che il traduttore andrebbe preso a schiaffi e godetevelo.

Fatto sta che ci ho messo un po’ a finirlo, in parte perché da un certo punto in poi mi rendevo conto che stava per terminare e – come tutte le cose belle – volevo che durasse ancora il più possibile, cosa che potrà essere condivisa dalla maggior parte delle signore all’ascolto; in parte perché, sempre da un certo punto in poi, i ricordi hanno iniziato a fare interferenza con la storia e hanno rallentato la lettura.

Nebbiolanum, 17 gennaio 1991.

Non il giorno migliore per trovarsi in Stazione Centrale con un paio di pantaloni verde militare e gli anfibi. Mentre aspetto il Miguel, fanno in tempo a controllarmi i documenti sei volte. Sono sempre la stessa sciroccata poco più che ventenne con deriva post-punk, ma non si sa mai, controllano. Di quei giorni ricordo tutto: i giornali che titolavano “E’ GUERRA!” come se non vedessero l’ora di rifarsi di un’opportunità indebitamente sottratta a tutti i caporedattori dopo il ’45; il Miguel che osserva tesissimo un nordafricano sulla 90 infilare un borsone sotto il sedile, e mi sussurra in un orecchio “se scende lui scendiamo anche noi”; la panna sulla pizza, che sul Resegone ancora era vista come un’eresia, e non solo perché pensavano ci volessimo quella montata; le lenzuola che di far finta che il divano di sky fosse un letto non ne volevano sapere, e la pelle finta che si attaccava a quella vera così da riempire la notte di rumori da strappo a ogni cambio di posizione; parole a voce bassa, al buio: ma quindi, come la vedi? La vedo bene. Vi vedo bene; due pigiami da uomo seri, la mia schiena e il mio sterno, e una mano stoica; una nave persa a Genova e una telefonata per chiedere una notte in più.

Un anno strano, in cui la figlia di nessuno salita da Roma, quella che non era mai andata a fare la settimana bianca (e, strano a dirsi, non c’è andata tuttora) si levava qualche soddisfazione mica da ridere, tipo non credere alle leggende metropolitane della coinquilina della collega che andava a letto con uno e la sera dopo lo ritrovava a battere all’angolo della discoteca in cui l’aveva incontrato. O essere tra gli unici cinque di tutto il corso ad essere reclutati per un lavoro ultrafigo prima ancora di dare la tesi.

Milano non era ancora ospitale, ci studiavamo con diffidenza.

Il lago era più amichevole, o almeno sembrava.

L’aria primaverile e svariate tinozze di fragole col porto dopo, verso metà maggio, il mondo – Nebbiolanum inclusa – era un posto felice, pieno di baci, di kamasutra da sperimentare ridendo, di esami da arbitro, di progetti e case nuove da vedere insieme.

Un paio di giorni ancora, poi Annus Horribilis 1.0 ci avrebbe fregato tutti e avrebbe cambiato le cose per sempre.

[out of time #3 – last night on earth]

Lecco che non è ancora provincia, Sabato sera.
Aria fresca dopo una giornata calda, profumata di primavera densa, di estate incombente.
La montagna che dorme sul lago, in agguato, in attesa, come la piovra marziana della cupola di Santa Maria del Fiore. Gelato e parole, e baci, e contatto. E i lecchesi che non ti piacciono, e chilometri, chilometri, chilometri nello spazio e nel tempo.
 
Il parapetto del lungotevere una mattina di Porta Portese e una diciannovenne sorridente e spavalda e un tipo alto con le labbra morbide e una camicia a quadri.
 
You can reach but you can’t grab it
 
Lettere, lettere, lettere e telefonate, e un treno per Verona.
E una notte completamente in giro senza fermarci, perché a fermarci sapevamo cosa sarebbe successo.
E più ci guardavamo negli occhi e più lo sapevamo, persi a guardare il panorama e le luci dall’alto in un desiderio che si tagliava a fette, e colazione di nascosto all’ostello con i cornetti e la marmellata di ciliegie.
 
Distanze annullate da parole improvvise, da tuffi al cuore, dal sapere che era la stessa cosa.
Milano, una decisione brusca, un cambio sofferto.
Meno sofferto sapendo che voleva dire te, indipendentemente da tutto, ma con la certezza che sarebbe successo.
Una settimana, e non esisteva nient’altro, e potevo finalmente tenermi stretta ad altezze vertiginose, e il profumo dei tuoi capelli e del tuo detersivo da bucato, prima ancora del tuo.
 
With my fingers as you want them
 
E giri per locali malfamati da studenti spiantati, navigli, città studi, il pub reggae con le panche e le fragole col porto, e giri di notte in macchina all’infinito, e treni per Carrozzecorte e grolle, e benzina in Svizzera, e Bellagio tenuti per mano, El Diablo tour, ed ettolitri di birra con Nicola e musica dal vivo e sigarette, e le avventure porno del tuo amico in quattro nella cinquecento, e vaffanculo ai -13 il giorno del mio onomastico che ho abbaiato dal freddo.
E il Miguel, e questi infedeli che credono che vogliamo la panna dolce sulla pizza. E il comune di Paullo e le strade da camporella.
 
Heavy rhythm taking over
To stick together
A man and a woman
Stick together
Man and woman
 
Firenze all’improvviso, e tu che ti sganasci a raccontare che scopi con un arbitro, e una promessa scambiata ai giardini di Boboli e un matrimonio abusivo, e fare l’amore da non poterne più fare a meno, e al diavolo se ci cacciano dall’albergo.
Un mese esatto.
 
Goodbye you can keep this suit of lights
I’ll be up with the sun
Andnotcomingdown
Imnotcomingdown
Imnotcomingdown
 
Milanocollezioni a fare gli strafighi della situazione, con i miei colleghi acidi che non potevano capacitarsi del fatto che la sarda figlia di nessuno avesse vinto un lavoro e un moroso così bello alla faccia loro, e tu eri fiero di me e te ne bullavi in giro. E il tuo biglietto per Atlantide che ancora non sapeva di esserlo e che non hai mai usato. E il concerto di Sting, e la carica in piazza Duomo dopo la finale di coppa Uefa e le radiografie del mio cranio.
E un sogno da incubo da cui non ti ho potuto salvare perché ancora non lo sapevo che alla mia tesi non ci saresti stato.
 
If there’s an order in all of this disorder
Is it like a tape recorder?
Can we rewind it just once more
 
E quell’ultima notte che abbiamo fatto l’alba, e tu mi hai prestato ventimila lire che non ti ho mai reso, e la Giamaica raccontata solo per me su un foglio a quadretti, e stare abbracciati per ore sullo stesso sedile, dopo, e i tuoi baci sul collo e averti alle spalle, e quanto mi è sempre piaciuto, e tutti i programmi di cose che avremmo fatto di lì a un mese, e il mio compleanno… Tutto mi ricordo, di quella notte, come se fosse stata l’ultima veramente, come se lo fosse stata, maledizione, come se lo fosse stata.
 
She already knows it hurts
She’s living like it’s the last night on earth
Last night on earth
Last night on earth
 
 
Per te, per quanto mi manchi, perché quella Domenica mattina ho mandato affanculo una tua zia mai vista che insisteva perché entrassi a guardarti l’ultima volta, che eri così bello che sembrava dormissi, e io le ho risposto che l’ultima volta che ti avevo visto *io* eri di sicuro più bello. Per tre maledette fotografie in cui il tuo sorriso non è abbastanza, per la foto di Bob Marley che ti hanno messo sopra, per una scritta urlata con rabbia all’alba con lo spray davanti al cimitero perché non era giusto, perché a ventiquattro anni la gente non può non essere immortale, per Nicola che è andato fuori di testa quando si è reso conto che aveva il suo migliore amico in spalla per l’ultima volta e nessuno era ubriaco, per la tua sciarpa hippy che mi hai avvolto intorno al collo, e lì è rimasta, perché a volte riesco a parlare di te senza piangere e a volte no, di sicuro non stasera. Per il cuore di chi è passato nel frattempo, perché possono ancora vedermi e sentirmi e toccarmi, ma io con te non posso più.
 
If you wear that velvet dress – U2 :bumbum:

[Out of time #2 – Un errore di matrix]

Non so perchè.
So come è successo, come sono arrivata fin qui e cosa mi ci ha portato, ma me ne sfugge il motivo, l’origine di tutto.
Sarò per caso una di quelli nel cui destino c’è scritto che non avranno mai pace?
Ma tanto io nel destino ci credo a targhe alterne.
Fatto sta che mi sento esattamente così.

perso
non più contatto più niente
se tutto cambia in un istante
in guardia e costantemente
fuori controllo

perso
non più certezze più niente
il vuoto accorcia le distanze
in fuga e costantemente
pronto allo scontro

E a parte il fascino dell’artista maledetta, a parte l’alternanza di luce e ombra, la seconda delle quali mi accorgo che solo pochi riescono a cogliere spontaneneamente, a parte le varie me stessa che mi fanno compagnia, a parte il mercurio che mi scorre in vena, a parte il fatto che non saprei vivere in un mondo certo, a parte il fatto che non mi prenderanno più alla sprovvista, anzi, non mi prenderanno più e basta, a parte quello che sapete di me e quello che non so nemmeno io, a parte quello che mi attende…

…quello che mi attende mi troverà qui ancora per un po’.
Ma non per sempre.
So avere pazienza, ma potrei essermene andata nel frattempo. Posso combattere, ma questa non è azione nè strategia. Posso sopravvivere, so di esserne capace, ma non so se è quello che voglio. Posso forse sopportare l’idea di essere un’anima dannata che non avrà mai niente più di sè stessa, e per me stessa sperare di essere ricordata, ma non voglio sopravvivere e basta. E’ solo la curiosità che mi salva. La curiosità di sapere cosa c’è dopo oggi.

[Mandato da outsider il Giovedì, Novembre 27, 2003 – 11:10]

Out of time #1

Troppo tempo che non succedeva, lo sapevo che non poteva durare.

Ormai è una cosa fisiologica.

Arriva, come quel tipo d’aria fredda, talmente fredda che quando la respiri sembra liquida.

E dopo che arriva ti rendi conto che ne sentivi il bisogno.

Che la stavi aspettando.

Come ossigeno, per l’appunto.

E ormai sai anche cosa succederà dopo.

Periodo di durata variabile in cui cercherai di non pensarci, di restare saldamente ancorata a terra, sapendo benissimo che non c’è speranza di riuscirci e che deve solo fare il suo corso.

Che lo faccia, allora.

Le cinque e qualcosa, telefono.

Semplice piacevole sorpresa.

D’altronde l’hai cercato tu.

Decisamente piacevole.

Specie di appuntamento.

La situazione è talmente sotto controllo che manco ci pensi, al fatto che ci possa essere una situazione.

Qualcosa prima delle sei.

Missione di recupero effettuata, ci si avvia giulive al rendez-vous, io e la rossa senzabussola.

Strano fare la telecronaca al contrario.

Quindi questa è la famosa X-mobile.

Noti che lui sta molto bene con i capelli un po’ più lunghi dell’altra volta.

Beh, nessuno aveva mai messo in dubbio che ci fosse del buono.

Si ciancia allegramente, ci si sbatacchia su e giù per Caput Mundi.

Prevedo complicazioni per il mio secondo impegno, ma tant’è.

Era un pezzo che non giravo in macchina qui, perlomeno senza che guidassi io.

Bell’effetto.

Dovrei farlo più spesso.

(cerchiamo di renderci conto che è comunque un casino fare una telecronaca al contrario senza tener conto dei postcedenti)

Iniziano i casini col secondo impegno.

Millllllle telefonate, nel corso delle quali inizio a rendermi conto che per quanto mi riguarda il secondo impegno può andarsene al diavolo.

Darei qualunque cosa per una doccia.

Sosta tecnica per un risciacquo rapido.

Ci si accampa momentaneamente nella sua stanza chez parents. Un po’ di roba sua sparsa in giro, noto, ma senza registrare più di tanto.

Mi perdo sicuramente dei dettagli interessanti, presa anche da un paio di telefonate più o meno simpatiche.

Mi riconnetto di colpo quando vengo invitata a infilare le dita nello strappo sul lato B dei suoi jeans.

Liscio, morbido. Bello.

Mica sono di legno.

Decisamente non lo sono, e me ne bullo col cane dei vicini.

Ma la situazione telefonica si riprende l’attenzione, e torno a riconcentrarmici.

Si sta creando una bella atmosfera amicale, comunque.

Giri vari fino al posto della cena.

Saluti, baci, abbracci, ritrovamenti, primi impatti, accenti spropositati, sorrisi giganti.

Ci troviamo affianco, e la spalla colpisce ancora, per scherzo ma colpisce.

La sensazione amicale cresce, anche se sul momento non stavo registrando.

Addio al secondo impegno.

Ciance vagamente a luci color ciliegia sulla via del luogo deputato, ma nulla di privato, anzi.

Mi rendo solo conto che inizio a registrare più elementi.

Nulla di che, sostanzialmente, fino al pagamento della tassa sul ghiaccio.

Direi che è qui che segna il primo punto.

Nulla di cui vantarsi, per carità, solo un completamento del registro presenze,

ma da qui a dire che non c’è reazione ce ne passa.

La reazione c’è e –ehm- pare che si veda.

Il contatto fisico si sviluppa.

Mi riavvolge la sensazione di benessere solo al pensiero.

Mi porto avanti con la tassa del ghiaccio, non si sa mai.

Da lì in poi per il tempo che si resta è tutto in crescendo.

Amicale, chiaramente, ma molto affettuoso, molto.

Potrei passarci le ore.

E riscopro cose di cui per tanto tempo mi accorgo di aver fatto a meno, così come mi accorgo che mi sto un po’ facendo di sensazioni tattili.

Meraviglia.

Un grilloparlante non richiesto si affaccia per un attimo, poi capisce da solo che non è cosa.

Perspicace.

Mi congratulo. 

…ringrazia che sono animalista.

Il contatto fisico inizia a dare dipendenza, e si trascina appresso il contatto visivo,

ma tanto sono abbastanza occupata a tenere a bada gli sfarfallamenti.

E’ il caso di capire rapidamente che non ce n’è.

Chiaro, no?

Certo.

Tutto il resto è in stand-by, e voi sapete bene a cosa mi riferisco.

Ed è l’unica cosa da fare, in presenza crescente di polpastrelli, temperatura ideale, vaste zone di epidermide più o meno accessibile,

colli di camicie, colli di persone, bottoni di jeans e peli per niente superflui.

Se ne esce vivi, comunque.

Si placano altri tipi di appetiti, e non mi faccio nessun tipo di idea finchè un certo bagaglio non trasborda da una macchina a un’altra.

DOH!

Ma figurati.

Assaporo il cambio di luce, lento, in presenza di alcuni degli elementi più adatti: un mezzo motorizzato, musica, compagnia delirante.

E caffè.

E una sigaretta,

sulla quale mi verrebbe da commentare che preferirei riprendere a fumare con una sigaretta del dopo,

ma non lo faccio.

E non perché non sia vero.

Comunque.

Finiamo il giro che è luce.

E quindi questa è la X-tana.

Quella di cui si era parlato a lungo nel corso di una celebre telefonata notturna, una delle migliori da tempo a questa parte,

anche lì forse perché inaspettata.

Mi ci trovo molto.

E un moto d’orgoglio nei confronti della microcasa mi porta a desiderare di mostrarne le bellezze a questi avanzi di cialtroni nottambuli.

E poi non so come sia iniziato

né quando di preciso.

Ho parti di conversazione sovrapposte

cocacola

uno scaldabagno da accendere

altro caffè

disquisizioni su personaggi improbabili

e

altro contatto fisico.

Di quelli che ti fa ringraziare di aver messo il cervello e il resto in stand-by, perché altrimenti non sarebbe potuto/dovuto succedere.

E sarebbe stato un delitto da far gridare vendetta al cielo.

Total inconscience.

Total si fa per dire, data la presenza di pubblico e la necessità di darsi un contegno.

Un cosa?

Il fatto assolutamente stupefacente è che lui sembra convinto di quello che sta facendo,

il che è abbastanza sconvolgente, a pensarci,

per cui non ci penseremo.

Le uniche attività cerebrali sono rivolte alla registrazione di dettagli:

sghignazzate memorabili

velocità di battitura

perfect blowjob e dintorni (disquisizioni sul tema)

cambi di posizione tra tutti

cambi di posizione tra due

(e se adesso mi giro?)

tavole (nel senso di illustrazioni)

vani tentativi di contenere i bollori conto terzi

senza alcuna possibilità di successo

ombelichi da cartoon

varchi millimetrici tra bordo dei jeans e pelle

sensazione di combaciamento perfetto

indumenti di troppo

modifiche anatomiche

constatazione amichevole di sensualità dei capelli lunghi e afferrabili

gemellaggi a percussione

risate

risaie

altro caffè

abolizione definitiva e consacrata del secondo impegno

e io che mi ero dichiarata allergica al fun club

il tutto che ancora poteva essere vagamente ricondotto nella categoria

coccole statiche un po’ più che amicali

(vagamente)

(decisamente)

finchè ci scappa il bacio.

Morbido, caldo, lento, profondo, perfetto.

Crudelmente diverso da quegli altri.

Segnali di allarme moltiplicati,

ma in quel momento non pensi ad altro.

Tranne

forse

al fatto che devi stare attenta a non urtare la sensibilità dei presenti

che sono pur sempre presenti.

Su due

sai che uno probabilmente capirà

(lo sai?)

ma non è il caso di trascendere.

Prendi in considerazione l’idea di spostare il volo

ma vorrebbe dire domani

e vorrebbe dire un casino.

Anche se firmeresti per correre il rischio.

Perciò ti rassegni tuo malgrado agli ultimi x minuti

che cerchi di impiegare meglio possibile

e nei limiti del possibile pare che ci si riesca.

Lui sembra davvero star bene.

GAME OVER

Raccatti di corsa armi e bagagli

malvolentieri come poche altre volte.

Ma più che sperare in uno sciopero o nella chiusura di FCO per derattizzazione improvvisa non sai cos’altro fare.

Anche perché non dormi da tempo immemorabile.

E comunque, FCO è stupefacentemente vicino

e meno male, visto che già così hai appena il tempo di una saldatura reciproca a presa rapida

(un po’ più di una, in effetti)

di una semiproposta a fermarti un po’ di più la prossima volta

e di iniziare a chiederti

se è davvero così con tutte

ma non a finire di chiedertelo

meravigliandoti ancora del fatto che sembri stare davvero stare bene,

perché l’impressione è quella.

Perciò va bene così,

al di là di insani pensieri peccaminosi su una fantomatica gara di ritorno a punteggio pieno.

L’incoscienza colpisce ancora.