[Norwegian pirl: la genesi]

« (…) il Nilo comincerà a pullulare di zebù; essi usciranno, ti entreranno in casa, nella camera dove dormi e sul tuo letto, nella casa dei tuoi ministri e tra il tuo popolo, nei tuoi forni e nelle tue madie. Contro di te e contro tutti i tuoi ministri usciranno gli zebù». Esodo, 7, 26.

Ecco.
Poi non dite che non vi avevo avvisato.

C’è un prima e c’è un dopo.
A volte c’è anche un prima che non può aspettare che arrivi il poi, ma questa è un’altra storia.
Nel prima c’è Morten Harket. A me non mi freghi, Morten, io l’ho capito appena ti ho visto che quello spazio fra i tuoi incisivi rimandava dritto dritto a Nada e al Sassofono blu. Le royalties per il nome dovete darle, taccagni, non fate finta di niente.
C’è Smilla, nel prima, e prima ancora Andersen. Ora, che la Danimarca vanti il più alto tasso di suicidi in Europa è un fatto, certo, il clima, ma pure tu, benedetto, la ragazzina assiderata e la madre che si cava gli occhi e li fa cadere nel pozzo, adesso tu dimmi se, ma favole un cazzo, Hans Christian, hai traumatizzato una generazione e qualcuno bisogna che te lo dica. The kingdom era Disneyland, in confronto.
Ci sono Maj Sjöwall e Per Wahlöö, nel prima, e Stieg Larsson, che gli dei mi perdonino, ma ci son pure quei momenti in cui una ragazza ha bisogno di qualcosa di grosso e pazienza se non regge la conversazione, dopo gli chiami un taxi e via.
C’è Erlend Øye col tutù e una notte in cui c’era qualcosa nell’aria, altroché se c’era, Fernando, anche se poi in sottofondo c’erano i Giardini di Mirò, e una squadra inusitatamente campione d’Europa e un’altra composta quasi esclusivamente da giocatori di nome Jensen che faceva ubriacare i cronisti. E un tale Sven Goran, come no. C’era del marcio e Vicky il vichingo, Villa Villacolle e i suoi abitanti, e un viaggio fantastico cominciato con la sottoscritta alla guida di un’Astra SW per 900 chilometri attraverso la Germania, di notte, con la radio bassissima per non svegliare i tre macachi che dormivano, uno dei quali si rivelò un compagno di viaggio talmente insopportabile che a saperlo prima l’avrei abbandonato in un’area di servizio alla mercé dei camionisti del Baden-Württemberg, e l’alba sul Baltico e una casa bellissima a Copenhagen, Legoland e Christiania, di cui ho più solo una foto appesa sul muro di fronte al mio letto, proprio dietro la porta. E Elsinore, e scoprire con immensa soddisfazione che l’irritantissima scena finale dell’Amleto di Zeffirelli, quella in cui Mel Gibson muore esattamente al centro della sala solo per urtare il mio senso estetico scaleno, non era stata girata lì, non potete capire il sollievo.

C’era un moroso norvegese che fece la spola per un po’ ai tempi in cui le low cost non erano ancora state inventate, da cui imparai come comunicare in maniera efficace la mia stima alla curva avversaria in uno stadio e altri fondamentali.
E poi, qualche anno dopo, ma sempre prima, c’era K (che per inciso non dà il nome all’omonima pagina, fosse ispirata a lui si chiamerebbe Generazione P) che leggeva Montanelli in roulotte a Nowhere e tutti e due scoprivamo che la pronuncia esatta dell’aggettivo è scandinàvo e non scandìnavo come avevamo sempre detto, tu guarda se dovevamo arrivare in Nuova Zelanda per scoprirlo, e sempre in Nuova Zelanda c’era Norwegian wood che era uno dei libri che mi avevano regalato da portare in viaggio, l’altro dei miei era “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, quelli di K non me li ricordo. Il kindle era ancora di là da venire.
E questo era grossomodo il mio rapporto con la Scandinavia in generale e con la Norvegia in particolare prima.

Poi è arrivato lui.

Un uomo alto 1,93, che non supera i 90 kg e che solo per certi traduttori di Piemme si può definire tarchiato. Ivan Zaytsev è alto 2,02 e ne pesa 100, per dire.
Lo so che in realtà dovrei dire “poi sono arrivati loro”, ma mica tutto quello che ha scritto Nesbø mi è piaciuto. Il cacciatore di teste va bene giusto quando hai finito di rileggere pure i vecchi Liala di mamma, perché non è nemmeno grosso.

Lui, invece.

Non che abbia mai avuto bisogno di grandi scuse per prender su uno spazzolino da denti e andare in giro per il mondo a far ridere del mio dentifricio da viaggio, però è vero che a volte capitano storie ambientate in posti che ti chiamano talmente forte che resistere è una battaglia persa. Poi parlo io, che ho quel famoso problema con le tentazioni.

Organizzare la missione Norvegia è stato particolare da più punti di vista: il primo viaggio superiore ai tre giorni che facevo di nuovo da sola dopo molti anni, con un budget reso ancora più ridicolo dal fatto che l’affitto di casa era tornato ad essere interamente a mio carico, mentre il mio stipendio era rimasto la miseria che era. Ma organizzarsi le vacanze senza doversi preoccupare dei soldi o delle condizioni meteo  è una roba noiosissima, disse la volpe all’uva. All’epoca ero ancora

– Una vendemmiatrice alta un metro e un portacenere pieno! – diranno i miei piccoli lettori balossi.

No, ragazzi, avete sbagliato: all’epoca ero ancora una lavoratrice del settore cultura e spettacolo. Una di quelli che non intasano le bacheche altrui lagnandosi di dover lavorare i festivi, non so se avete presente. Quelli che le ferie ce le hanno in periodi inconsulti: febbraio, novembre. Ottobre, nel caso specifico, giusto prima di quella stagione troppo esotica per noi creature tropicali. Perché ricordiamoci che stiamo sempre parlando di una che va in Norvegia forte dell’esperienza datale dall’aver visto L’era glaciale e la neve cadere tre volte in vita sua. Una che una settimana bianca non l’ha tuttora mai fatta, e non solo perché di bianco non possiede manco mezza mutanda. Una a cui ancora non avevano detto che parlava inglese con l’accento di Winterfell. Una che quando è salita in cima alla Jungfrau la cosa più intelligente che ha saputo fare è stata cadere di culo sul ghiaccio e che in Norvegia, ad ottobre, si è comunque portata il costume, che non si sa mai.

Quindi comincia tutto con lo squillo della terza sveglia, quella che ti segnala che se ti metti in macchina ORA perdi il volo solo di dieci minuti. Mostri d’imperio a Grogu le uscite di sicurezza dal tuo zaino, cacci dentro delle cose a caso tra quelle che stavi organizzando da tre giorni e che lei ha giustamente tirato fuori perché nessuno sano di mente andrebbe mai in Norvegia senza una gatta –  il che, perdendo per un attimo di vista la differenza risibile tra un topo e un alce, può anche essere vero – e, venti minuti, dopo una meteora ipertricotica in assetto da guerra entra a capofitto sull’ultimo CAG-BGY della notte un attimo prima che chiudano le porte.

Grogu dormirà benissimo nel sacco a pelo dimenticato sul letto, dopo averlo impastato per bene.

La meteora un filo meno, le madonne come isolante per dormire all’addiaccio in aeroporto, non sono un granché, ve lo dico.

E questo era il prologo.imgp1139

[a song of mountain and hare – episode I]

Siamo io e lui davanti a due birre.

E lui inizia a raccontare.

E quando ha finito di raccontare, in quella maniera affascinante e spaventosamente divagatoria che non è altro che l’ennesima variante della selezione naturale, quella che serve a riconoscersi fra simili e a far scappare gli altri, quelli che quando gli dei hanno consegnato le chiavi di tutti i tappeti volanti erano impegnati a far cose serie e necessarie, tipo fare la spesa e pagare le bollette, quando ha finito di raccontare, senza curarsi di perdere il filo mentre si interrompe ogni cinque minuti – esagerata. ogni tre minuti – per salutare chiunque si trovi ad attraversare la piazzetta e gli venga incontro con un sorriso amichevole – ovvero: chiunque – quando ha finito di raccontare e il suo bicchiere è vuoto senza che l’abbia mai visto prendere un sorso, a quel punto mi abbraccia e si allontana nella sera primaverile.

E io sono dei loro.

 

(c’è una cosa, però, che devo confessarvi, amici monteleprini. Non ho avuto cuore di farlo prima, vi ho costretto a subirne gli effetti senza una spiegazione. Anche se sono certa che alcuni di voi l’hanno sempre saputo.

Le parole che non vi ho detto. Cantiere, giorno 1.

A causa di un malfunzionamento della curvatura terrestre, Montelepre si ritrova ad essere piuttosto vicino a casa dei miei. Pausa pranzo. Bilancino da – uhm, diciamo orafo – alla mano, soppeso: da una parte, la possibilità di un pasto caldo scambiato, come fosse un segno di pace, con un vassoio di devozione filiale; dall’altra, panino, libro in santa pace e la certezza che mia madre è (inconfutabilità granitica dell’indicativo presente vs. traballante possibilismo del condizionale) capacissima di uscirsene con un “non ti fai mai vedere” mentre le sto ancora davanti in scala 1:1.

Vi ho mai detto quanto sono idiota?

L’ultima speranza è riposta nella tecnologia, ma il contatore geiger abbinato al sistema satellitare RDC (Rilevatore di Cognate) lampeggia verde. Non ho neanche quella scusa.

Sette/ottavi di me sono ancora sul cancello quando un lamento strazia l’aere circostante:

–          Ohi, figlia mia!!!!!

Diciotto feriti gravi, ventinove lievi, cinquantadue dispersi e novantasei richieste di risarcimento per i danni causati dalla schegge dei punti esclamativi.

Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimorum, dopo un rapido consulto, decidono che non possono reggere il confronto, appendono l’orrore al chiodo e corrono a presentarsi al casting del Bagaglino. Io mi limito a farmi gelare il sangue nelle vene e a prepararmi al peggio.

–          Perché sei vestita come un muratore?

–          Ma %+@#§***, mamma!

–          OUTSIDER! Dove credi di essere, in una discarica? Asterisco e cancelletto! A tua madre!

 

Non faccio in tempo a obiettare che:

a)      asterisco e cancelletto è il minimo che mi possa scappar detto quando scopro che l’urlo agghiacciante è dovuto a mera divergenza stilistica e non al fatto di essere appena diventata orfana;

b)      che comunque, a pensarci bene, non mi sarei dovuta preoccupare più di tanto, visto che Tony Curtis, l’unico uomo la cui dipartita potrebbe suscitarle una reazione simile, è già morto;

c)       che visto che c’era poteva almeno metterci un po’ più d’impegno e farmi somigliare a Jamie Lee;

d)      che, a proposito di divergenze stilistiche, non mi frega più, l’ultima volta che le ho dato retta mi son ritrovata a girare per cinque anni con una busta del pane in testa dalla vergogna, dato che sulla mia prima carta d’identità figurava una foto al cui confronto la signorina Rottenmeier pareva Nadia Cassini;

e)      che non voglio sapere che discariche frequenta;

f)       e che in ogni caso sono abbigliata secondo l’ultimo grido di Vogue Carpenter come mio solito, roba che a Balmoral se la sognano, signora mia, se la sognano;

 

che alle mie spalle si materializza Zippo.

Zippo un dono ha ricevuto, uno solo: quello di riuscire a sputtanare ai nostri genitori qualunque faccenda che la qui presente sorella maggiore ritenga più opportuno mantenere coperta dalla massima discrezione. Qualunque.

–          È vestita come un muratore perché sta lavorando in un cantiere.

–          Ahia!

Dimenticandomi che, tolte le scarpe e tutti i mazzi di chiavi, i cacciaviti, le pile, i rotoli di scotch da pacchi, il listino dei congelatori, la livella a bolla e il bidone di Haribo gommose a forma di uova al tegamino che si porta appresso ovunque, metti mai scoppi una catastrofe nucleare e lui rimanga senza generi di prima necessità, pesa 54 chili vestito, gli tiro di riflesso un calcio nello stinco e mi faccio male io. Ma non sanguino, e le mie interiora rimangono prudentemente al loro posto, quindi non c’è nessun motivo valido che possa distrarre mia madre dal pronunciare la frase definitiva:

–          Come sarebbe, stai lavorando in un cantiere? I cantieri son posti pericolosi.

 

In sette giorni di cantiere ci è successo di tutto.

Di tutto.

Dal colore mancante (con conseguente segnalazione della sottoscritta alla Digos in qualità di individua sospetta che si aggirava intorno all’isolato del colorificio perché aveva visto una finestra lasciata semiaperta e cercava un modo per scavalcare il muro, infilarcisi dentro e recuperare la latta perduta) al superponte che ha reso complicato trovare negozi aperti e desiderosi di scambiare merci con vile denaro, prestazioni sessuali e pizze di fango del Camerun, e che ci ha costretto a dipingere 12 mq con un rullino grande quanto lo spazzolino da denti di Barbie, ma in compenso nient’affatto rullante; dalla pioggia ai funerali imprescindibili che hanno bruciato pomeriggi critici; dal tira e molla sul finanziamento dell’impresa, con tutte le rimodulazioni del caso, alla decisione di portarla a termine comunque (anarchy in Montelepre).

Non sapevo come dirvelo, amici monteleprini, da cosa dipendeva.

Non era la mia sciarpa viola.

È che mia madre ha il nome di un colore anche lei, ma evidentemente al viola gli fa un sontuoso pippone.

Ce l’abbiamo fatta, nonostante tutto, perciò sarebbe carino se, ora che lo sapete, non mi bruciaste casa durante la notte.

Anche perché le cronache delle nostre gesta sono appena iniziate)

[airport 80 (voglia, disco, ecc.)]

Arrivo in aeroporto con la grazia della palla di cannone del barone di Münchausen.

Skopjie si è rivelata una città particolarmente ospitale, addirittura più di quanto mi aspettassi. Forse sono macedone dentro, chi lo sa. E sì che furba non sono, al limite contrabbandiera.

(questo con buona pace di chi ogni tanto fatica a inquadrarmi dal punto di vista etnico. Difficilmente mi danno dell’italiana, il che – quando sei all’estero e gli unici connazionali nei paraggi si fanno un vanto di dimostrare la propria appartenenza al genere subumano – torna a vantaggio, è fuor di dubbio. A volte un rigurgito di amor patrio mi spinge a rivendicare puntigliosamente le origini, giusto per sollevare negli interlocutori il dubbio che esistano effettivamente abitanti di quel buffo paese stivaliforme che sanno leggere e scrivere (sorvolo abilmente sul far di conto), comunicare anche senza il supporto audiovisivo di Rutto 2.0, non teledipendenti e capaci – udite udite! – di afferrare senza troppo sforzo concetti astrusi tipo “fila”, “silenzio” e “cestino dei rifiuti”. Di solito ci guadagno occhiate sbigottite seguite immediatamente da grasse risate e proposte di tournée del mio spettacolo comico nei maggiori teatri del posto, che Bill Hicks mi perdoni. Una volta sono persino stata invitata al Convegno Intergalattico degli Autori di Narrativa di Fantascienza, solo che ai partecipanti è andato in cuffia per errore l’audio della traduzione del poeta Vogon che teneva il suo intervento nella sala affianco e non mi hanno più cercato.

Comunque finora le ipotesi più accreditate mi vedono bene come bretone, forse per via dell’età, o nordafricana in genere. Che, voglio dire, passi per i bretoni, poveracci, ce ne saranno di particolarmente racchi anche lì, ma di norma son di aspetto assai piacevole, anche se hanno nomi da compagnia aerea o rimedi per il singhiozzo. Ma giusto un bauscia di provincia potrebbe prendermi per africana. Eppure.

Esselunga del Lorenteggio, qualche anno fa.

Fine luglio. Un caldo pesante e zozzo appena mitigato dagli scarichi delle auto. Nebbiolanum, in pieno oscurantismo morattiano, era ancora ben lontana dal riconoscimento del diritto civile al girare nudi per strada come usa d’estate in tutti i paesi civili. Al confine veniva consegnato un necessaire contenente:

  • n°1 tailleurino al ginocchio, 70% teflon, 30% calcestruzzo, non candeggiare né centrifugare
  • n°1 filo di perle d’ordinanza
  • n°2 caricatori di bigodini calibro 9
  • n°1 tanica di Altolàlsudore, un preparato chimico prodotto dai Laboratoires Mengeles che sigillava le molecole sudoripare e le liberava solo una volta saliti sulla metro all’ora di punta, altro che kamikaze.

Lo spacciavano per set di cortesia, in realtà era un’azione dei servizi leghisti per scoraggiare l’immigrazione.

Forte del mio passaporto diplomatico fenicio, attivo l’opzione Catafotting e vado a fare la spesa indossando l’unica tenuta che il mio organismo tropicale possa tollerare: una djellaba nera che monta sandalo minimo e la solita faccia da culo.

Arrivo in cassa col carrello pieno di taleggio e polenta e mi metto in fila.

Tempo sei secondi, un omino sopraggiunge e mi passa davanti come se non esistessi.

Poche cose mi fanno imbestialire come quelli che saltano la fila.

Carico la tetta destra e gli invio un messaggio telepatico.

Non riceve.

Tossisco in maniera talmente plateale che mi fischiano il fallo di ostruzione dal Maracanà.

Niente.

Gli do un’ultima possibilità prima di silurarlo, mi avvicino e, con la massima educazione consentitami da un istinto omicida al cui confronto il mostro di Milwaukee è una mammola, gli dico: “Mi scusi, c’è una fila”.

Lui chiama a raccolta tutto il disgusto di generazioni di Borghezi (antica popolazione barbarica dedita al brutale sterminio dei neuroni, decimata dalle malformazioni genetiche dovute all’accoppiamento tra consanguinei ed estintasi definitivamente per una banale allergia al Cif Ammoniakal), mi guarda come se, pregustando una scorpacciata di cassoeula, scoperchiasse la zuppiera e ci trovasse dentro una cacca di rinoceronte, e strilla con voce querula:

Tornatevene a fare la spesa nei vostri negozietti luridi!”.

Senza voce querula non rende.

Lo asfalto senza manco pensarci al grido di “per il mercato di San Benedetto, che è più pulito di quel letamaio di casa tua, e per la barba del profeta!”, giusto per non far torto a nessuno)

Stavo dicendo?

Ah, sì. L’aeroporto.

Mi catapulto al metal detector mentre chiamano il mio volo. Davanti a me, due file: una di dromedari stanchi e una di dromedari morti.

La prima mi vedrebbe in decima posizione, la seconda in quinta (e cinque, sei, sette e otto, arabesque!).

Intuisco la trappola.

Temporeggio.

La fila dei morti è completamente ferma in attesa che i parenti dell’ultimo defunto si presentino per celebrare le esequie.

La fila degli stanchi si è appena fermata per un decesso, si aspetta il coroner per rimuovere la salma.

La scritta “now boarding” all’altezza del mio volo comincia a lampeggiare sul monitor.

Il 7° Panzerdivisionen, nel senso di tedesco di cui, a due metri dal suolo, si intravedono (intravvedono? questa cosa va chiarita) le ginocchia, e con una panza tale che pure a dividerla ne resta abbastanza per tutti i presenti, mi toglie dall’imbarazzo e mi sistema d’ufficio nella fila degli stanchi con un colpo di pancreas.

Ottava.

Davanti a me una neopatentata, un vecchio col cappello, una signora fresca di messa in piega, un coatto con le lucette di Kit che con una mano telefona e con l’altra si scaccola, una monovolume con tre seggiolini e l’adesivo “Briciole a bordo”, una trebbiatrice col rimorchio e un camion della spazzatura.

Solo non si vedono i due liocorni.

Sparo alla neopatentata, mostro una foto di Miss Marple nuda al vecchio, sussurro alla signora con la messa in piega che mi pare stia salendo un po’ di umidità.

Quinta.

No, non ho cambiato misure.

Dall’altoparlante arriva l’ultima chiamata per il mio volo.

Scalo in quarta, poi in terza, imbocco l’ultima curva della serpentina in piena accelerazione lesmica, il rimorchio della trebbiatrice sbanda, la supero, comincio a sfilarmi la cintura, dall’altoparlante una voce spigolosa pronuncia il mio nome seguito da volgari insinuazioni su come starei impiegando il tempo invece di presentarmi all’imbarco, il camion della spazzatura rientra ai box, accelero ancora, sono in testa, sento i jeans che scivolano ma non posso tenerli su perché ho le mani impegnate a spingere dentro la valigia, faccio per oltrepassare lo scanner, “BOARDING CARD!”, mi intima la guardia, “IT’S INSIDE!” urlo di rimando, aggiungendo a voce non troppo bassa “eccheddick, you fucking cretin, me l’ha controllata la tua collega venti metri fa, altrimenti non sarei qui”, “BOOTS!” si vendica la guardia, “ARE MADE FOR WALKING!”, la so, cazzo ti credi, mica mi freghi così, “WHAT??”, what the fuck, me li tolgo anche se non suonano, la voce dall’altoparlante chiama “Passenger Outsider please plant of chinchinsk and move your fat ass to gate 16 for immediate boarding”, e poi.

E poi succede che mi distraggo e subentra il pilota automatico.

Sarà capitato anche a voi.

(insieme a una famiglia problematica, forse, ma tanto espansiva)

Ci sono gesti che il cervello abbina automaticamente a certe attività, è una cosa elementare, il cilindro rosso nel buco rosso, premi “installa” e il coso lì fa tutto da solo.

Spogliarsi è uno di questi.

Spogliarsi in fretta lo è ancora di più.

Vaporizza indumenti”, nella mia mente ferrodastiroavulsa, è un processo che presuppone intensa attività ludica nel giro di tre picosecondi. Se viene innescato, le sinapsi si concentrano sullo zuccherino e perdono di vista il resto, mentre le mani vanno avanti da sole il più velocemente possibile, secondo un protocollo stabilito.

– STOP! STOP! THIS IS NOT NECESSARY!

L’urlo della guardia mi blocca con le braccia per aria e la maglia sfilata per tre quarti. Eppure la sequenza era giusta: cintura, stivali, maglia, a seguire jeans, reggiseno e mutande.

Oddio, le mutande.

So cosa state per dire, invece ce le ho.

Sul treno per l’aeroporto mi ha chiamato mia madre.

– Stai rientrando?

– Sì, mamma.

– Vieni a cena, quando arrivi?

– No, mamma.

– E perché?

– Non lo vuoi sapere, mamma.

– Che il Signore abbia pietà di me e mi porti presto al suo cospetto, visto che in questa vita non mi ha dato la gioia di una figlia amorevole capace di trovare il tempo per star vicina alla sua povera madre malata prima che sia troppo tardi. Mettiti un paio di mutande pulite prima di salire sull’aereo, sai mai faccia un incidente.

Quindi sì, per forza ho addosso delle mutande.

Al rovescio, ça va sans dire.

Turchesi.

Trasparenti.

Col pizzo verde acqua.

E un fiocchetto.

Vorrei dire “improponibili”, ma mentre sto lì con le braccia ancora incastrate nella maglia sento che i jeans, privati della cintura, cedono alla forza di gravità, ed ecco che dette mutande, ahimé, si propongono.

Dall’altoparlante esce solo “Jesus Christ, Sider”, ma non credo vogliano convocarmi per un’audizione.

Approfitto dello smarrimento collettivo, salto in groppa a Panzer, lo frusto con la cintura, che si capisce che gli piace, e lo lancio al galoppo.

Non perdo il volo.

L’aereo non cade.

Sta a vedere che ‘ste mutande improbabili portano pure fortuna.

[comics]

Già solo per la coda di questo brano valeva la pena arrivare in fondo a questa giornata.

(tornare a casa – tardi, tanto per cambiare, e fame e sete e il mio regno per una vasca – pedalando piano su diapositive che scorrono random, apparentemente random – telefonate a bassa voce/il pino (minuscolo) fuori dalla finestra/i fresco della notte/il freddo boia della notte/il caldo umido della notte/risate. inarrestabili/i Giardini di Mirò/caffé (zitta, non dire niente)/la luce del pomeriggio tra i cazzo di rami bassi/lo strappo nei tuoi jeans/lo strappo nella tua maglietta/gli strappi addosso a me/le pale eoliche/una cosa sul Preikestolen che mi son dimenticata di dirti a proposito di sabato scorso/quella cosa che non abbiamo mai finito/tutte le cose che vorrei fare/quelle che non posso più fare/passeggiare per una bellissima città toscana che preferivi quando c’era decisamente meno gente/ascoltarti raccontare/sorrisi allo stato brado/vari tipi di nostalgia/correre a perdifiato per disperdere il sovraccarico di gioia/Cantagallo/Annus Horribilis ogni vent’anni vs. Very Special People ogni dieci (il bilancio è comunque in attivo)/quello sguardo/gustarsi il tormento (due deficienti) – e tra una cosa e l’altra pensare che ‘sto titolo ha un po’ di Neil Gaiman, ma pensa te)

[la senti questa voce]

Certo che questa regola della vocale finale che determina il genere è una cazzata fatta e finita.
Metti Andrea: come nome proprio femminile non mi è mai dispiaciuto, anzi. Per un breve periodo era persino entrato in nomination come Miglior Nome Possibile Se Fosse Una Bambina. Non dite niente. Certo, poi capita che i poveri Andrea maschi debbano accoppiarsi con delle Consuelo femmine per potersi riprodurre (cfr. “Multiple routes to asexuality in Andreae species”, C. Pollera et al., 1995), ma vabbè.
Oppure metti Milano: l’è un gran Milàn una beata fava. Non è un, è una gran Milàn. Perché Milano sta cercando di dirmi qualcosa, e lo fa come fosse una donna. Avete presente, no?

– Cara, cos’hai?
– N – I – E – N – T – E.

Volevate fare quelli premurosi (o anche solo quelli con una coda di paglia che mentre voi scendete dal treno a Mosca quella sta ancora finendo di sistemare le valigie sulla reticella a Vladivostok) e vi ritrovate sepolti da sei pallet di mattoni in caduta libera dall’ottavo piano, e la cosa peggiore è che sapete che quelle sei lettere sono solo il 10% dell’iceberg.
Milano, uguale.

15 giugno 2011. Sette del mattino. Non sto nella pelle. E sono pure in perfetto orario.
Le condizioni per una giornata all’insegna della sfiga perfetta ci sono tutte.

Si comincia con un numero di prestidigitazione: la scomparsa delle chiavi di Amaranta dalla faccia della terra al momento di uscire. Un secondo prima erano lì al limite dell’esibizionismo, un secondo dopo è come se non fossero mai esistite. Ma io sono zen, sono zen e non sto nella pelle. Niente potrà turbare questa giornata di gloria. Comincio a smontare casa con molta dovizia e nessun successo. Ah, ma io sono zen, ma che dico zen, sono Zenone. Il movimento non esiste, la realtà è immobile e quindi le cazzo di chiavi non possono essere andate da nessuna parte. Proseguo nello smontaggio con sempre meno successo e molte più madonne volanti, mi avvisano infastiditi dalla torre di controllo. Ma io sono zen, signori della Corte, ed è con somma quiete che centro in pieno con un bazooka spaziale santa Maria del Buon Consiglio che ha la faccia tosta di digitarmi sul muso “Keep calm and call a taxi”. Il taxi – bontà sua – promette di arrivare quando il mio aereo starà già rullando in pista. Santa Maria del Buon Consiglio plana con la grazia di una piuma di calcestruzzo e incrina sensibilmente la mia calma. Al grido di “siano stramaledette le chiavi – inglesi o meno – Tinto Brass e tutti i filistei!”, schivo l’uppercut incalzante dell’ansia e accendo un cero all’ultima speranza: Ato, il quale, per qualche miracolo ex ante, è appena andato a dormire ubriaco marcio dimenticandosi il telefono acceso. Mi raggiunge alla rotonda sotto casa, dove mi sono avvicinata nella speranza di guadagnare quei dodici secondi di speranza che mi garantiranno di prendere il volo. E’ in pigiama, e mi odia. Io lo amo, specialmente dopo che son riuscita a non imboccare in corsa l’uscita per Ciampino anziché quella per Orio.

Che culo, mi dico ripensandoci un’ora e venti dopo, mentre infilo fiduciosa la mano in tasca onde corrispondere al cocchiere il pedaggio acciocché mi trasporti in quel di Nebbiolanum.
In effetti il culo è l’unica cosa che mi ritrovo nella suddetta tasca, un’inutile paio di chiappe senza alcuna connotazione propizia.

Non può essere.

Non.
Sta.
Succedendo
Sul.
Serio.

(faccio appello alla vostra dignità per evitare commenti di natura fluviale)

Mentre una scritta luminosa compone queste cinque parole, in testa mi scorre la moviola dei miei movimenti da stamattina.
Mi rovisto: niente. Smonto lo zaino preparata a veder saltar fuori – al colmo dell’infingardaggine – le chiavi: niente. Tranne una corbeille di rose rosse che mi viene recapitata con un biglietto da parte di un uomo d’affari appena atterrato da Groznyj: “Tuca Tuca vostro molto sexy. Aspetto questa sera al castello di Monfort strofinare insieme mio Kalashnikov”. Vattènne. Io stasera ho un appuntamento con Dave Grohl che mi esce nudo dalla torta per cantarmi tanti auguri.

Se riesco ad arrivarci.

Sommando gli spiccioli ravanati via da pertugi reconditi riesco a mettere insieme i 5 € di un biglietto di sola andata. Sono zen. Sono molto zen. Niente potrà rovinarmi questa giornata. Neanche una telefonata in cui mio padre mi annuncia che un camionista sconosciuto gli ha appena riportato il mio portafogli al netto del contante appena prelevato, non un istante prima, si badi bene, ma un istante dopo che la sottoscritta ha provveduto saggiamente a bloccare tutto, dal bancomat alla tessera punti di Eurozoo.

(mio padre è un uomo emancipato. Ha smesso di porsi domande stupide sui legami veri e/o presunti tra la sua primogenita e i camionisti sconosciuti e vive felice)

A Nebbiolanum c’è il tipico clima subartico di Singapore a giugno. Piccioni arrosto, per rappresaglia verso il casato alpino, scacciano il Duca d’Aosta beccandogli le dita dei piedi. La piazza viene ribattezzata “Cumenda del Gran Pipùn Che Ghe Fé El Neutro Roberts A Noantres Tel Chi El Napalm Ziocàn”.

E’ quindi senza alcuna difficoltà che l’impiegato della filiale della Royal Bank of Petzalcool presente in Centrale mi riconosce come correntista di vecchia data senza lasciarsi distrarre dal mio aspetto, per così dire, degagé. E mi assicura che la scansione della retina e dell’arcata dentale, il controllo dei valori della bilirubina, il test HIV e il richiamo dell’antirabbica sono procedure standard per un prelievo fuori piazza allo sportello. Mi lascia solo un po’ perplessa il pap-test, ma se è per la sicurezza dei miei risparmi.

Arrivo a Rho seguendo gli scheletri delle carovane che mi hanno preceduto, mi infilo dentro, mi piazzo strategicamente dietro un frigo Toseroni e mi addormento. Mi sveglio sugli Hives e sotto una selva di polpacci tatuati. Subito un coiffeur, un visagista e un massaggiatore si presentano per ricompormi, perché quelli di Hub Music Factory, oh, ci tengono che il loro pubblico sia trattato con ogni riguardo. Anche perché se il rene che mi chiedono in cambio della maglietta che porterò ad Ato per ringraziarlo non fosse in ottimo stato, non se ne farebbe niente.

(gesti delle forbici che si sprecano al mio indirizzo. Lo so, dovrei spuntarmi la frangia)

Arrivo al dunque, ovvero a Iggy Pop (in linguaggio-maga: i BeBop) che fa da apertura ai Foos. Il che è abbastanza singolare, ma soprattutto molto plurale, visto che ormai sono insardinata in eccellente posizione centrale a pochi metri dal fronte palco. Ed è lì, mentre guardo lui, 64 anni, torso nudo e bacino flessuoso, che si agita come un fringuello senza uno straccio di debito d’ossigeno e rocka and rolla scatenato, che mi vedo: una signora anziana con due sacchi di cemento al posto delle caviglie e la spina dorsale a pezzi, sfatta dal caldo, intollerante alla gioventù sudata e pogante, e me lo dico: basta. Sei vecchia. Abituati all’idea che tu con queste cose hai chiuso. Ora ti levi da qui, ti accomodi a lato e ti siedi sul primo sasso che trovi. Non vedrai un cazzo, sentirai e basta e ti dovrà bastare, perché tu con queste cose hai CHIUSO. Un bel discorso, va detto. Onesto, diretto. Bisogna capire quando è il momento di attaccare i cori da stadio al chiodo. E io, se le cose me le spiegano come a un organismo unicellulare, le capisco.

Il problema è farle capire agli altri: la gioventù esagitata s’è infittita, per spostarmi dovrebbero lanciarmi un’imbragatura da un elicottero. In assenza del quale rimango lì pregando che la morte per asfissia sopravvenga immediata e che le mie ceneri vengano disperse in mare fino a che, all’improvviso, Iggy viene portato via di peso da due infermieri, e una voce con accento statunitense sussurra a 200.000 watt: “Hi, Sider, it’s Dave. Great to see you”.

(Sider verrà ritrovata ore dopo in coma estatico nei pressi di piazzale Lodi, e l’unica persona che le darà asilo sarà la dott.ssa Pollera che tanto alle bestie da stalla c’è abituata. Insieme a un giovane titanico condivideranno una settimana di revisioni scadute, batterie azzerate e bidet esplosi, ma questa è un’altra storia)

(purtroppo per voi, continua)

[beast is beast]

Ci siamo sbagliati tutti. Tutti.

Giovanni l’evangelista, Steve Harris, Robert Heinlein. Persino Piero Pelù non aveva capito una mazza, il che è tutto dire.

Il numero della bestia non è – ripeto: NON E’ – 666.

E’ quattordici.

E ne ho le prove, signore e signori.

Provate a piazzare un gruppo di quattordici cubani sullo stesso volo Alitalia e le avrete anche voi.

(attenzione: ciò che leggerete di seguito è stato realizzato da stuntmen professionisti. Non cercate di ripeterlo da soli in casa)

Vanno bene anche indiani, finlandesi e polacchi. Coi brasiliani in teoria l’esperimento reggerebbe. In teoria. Perché tanto lo sappiamo in cosa si trasforma un nome tipo Ricardo Izecson dos Santos Leite. Così son capaci tutti, grazie al.

Da soli è impossibile, si diceva: così come sugli aviogetti di certe compagnie manca la fila 13, l’ASS – l’avanzatissimo Apotropaic  Scaramantic System  di Alitalia – reputa di cattivo augurio inserire quattordici passeggeri sullo stesso biglietto. Per sicurezza, anche tredici, dodici, undici, dieci, nove o otto, sia mai.

 

“Ma io ho la squadra del Gemiti Pirri, ho l’ottetto d’orchi di Šostakovič, ho Danny Ocean e una decina di amici suoi  da portare in trasferta!”.

 

“Te li carichi in fila per sei col resto di due, honey”.

 

“Certo, di modo che i vostri loschi sistemi facciano in modo che la tariffa cambi tra un biglietto parziale e l’altro. Per cortesia”

 

“Credi che sia aria quella che respiri ora?”

 

 

Per pura rappresaglia donchisciottesca faccio un tentativo. Misteriosamente, il sito di Alitalia si blocca appena ho inserito – al tempo record di 36’28” – i primi sette nominativi. Strano, non lo fa mai.

 

Mi rassegno quindi all’inevitabile procedura via call center. Complici i bonus accumulati dopo aver sgominato l’operatrice stronza delle 11.27 e l’operatore pazzo delle 15.05, alle 17.38 vinco un giro con l’Operatrice Gentile.

 

OG (standard): – Buon pomeriggio, sono Clelia, operatore 491, come posso aiutarla?

 

O (scettica): – Buon pomeriggio a lei. E’ pratica di magia nera?

 

OG (buzzobuonica): – Non è la mia qualità migliore, ma me la cavo. Quanti, quando e per dove?

 

O (nichilista): – Quattordici. Primo agosto. Da Caput Mundi ad Atlantid City e poi, il giorno dopo, da Atlantid City a Dashurbiriville.

 

OG (coraggiosa): Primo agosto-due agosto? Ammazza, ve ne stancate presto, su Atlantide.

O (speranzobarlumica): L’ultima volta ce ne siamo stancati talmente presto che li abbiamo lasciati direttamente all’aeroporto di Caput Mundi senza manco farli arrivare qui, s’immagini.

 

OG (combattiva): Vada col primo nome.

 

O (i[n]spirata):  Salvador Rafael Nadal Garzòn Bargallò.

 

OG (amichevolmente constatante): Quattordici. E neanche un italiano.

 

O (condogliante): No.

 

OG (accomodante): Sarà una lunga notte. Vada col secondo nome.

 

O (e/spirante): Luìs Miguel Felipe Yoel Nilso Lòpez Gutierrez de la Cuesta del Sol de las Siete Fuentes y de la Puta Madre.

 

OG (pratica): Sul biglietto apparirà in forma abbreviata, ma noi ovviamente lo dobbiamo inserire per intero. Mi fa lo spelling, per favore?

 

O (praticissima): Livorno Udine Imola Savona, Milano Imola Genova Udine Empoli Livorno, Firenze Empoli Livorno Imola Palermo Empoli, York Otranto Empoli Livorno, Napoli Imola Livorno Savona Otr…

 

OG (aboccapertica): Ma… ma lei è una spellologa professionista!

 

O (immodesta): Anche un filo compulsiva.

 

OG (tecnica): Ho notato, fila come una mitragliatrice, non le sto appresso. Le dispiace ricominciare e andare un po’ più lentamente?

 

O (entusiasta): Affatto. Livorno Udine Imola Savonarola, Mamarùa Imola Genova Udine Empoli Limortacci, Fanculo Empoli Livorno Imola Padrenostro Empoli, Youaremysunshinemyonlysunshine Otranto Empoli Livorno, Narcos Imola Livorno Occhioperocchio, Latisana Ommioddio Paragnosta Enterprise Zoccola…

 

Quattro ore dopo:

                                                                                             

… A-E-I-O-U-Ypsilon, Domodossola Empoli, Livorno Abbiamoquasifinito, Pinocchio Ululì Tavernello Accanisciunèfesso, Maremmamaiala Aldebaran Domodossola Romolo Esausta.

 

OG (esistante): Mi perdoni. Ho un dubbio.

 

O (misterwolfica): Adesso non ce l’ha più. Vero?

 

OG (titubante): Il signor Faustino Adalberto Felìz Depilado Rodriguez. Siamo sicuri che sia Depilado?

 

O (perduta): Se fosse Depilado non sarebbe Felìz, lei cosa dice?

 

OG (smarrita): Quindi diventa Depilado Infelìz?

 

O (seriamente incompresa): Oppure Felìz Repilado, come da anagrafe, con la erre di…uhm…

 

OG (allargantica): …di Rottinc…

 

O (concorde): …di Rottenmei…

OG (professional): Di Rotterdam. E non se ne parli più. Ora aspetti che prima di passare altre sei ore a combattere contro il BOPCCRS – Bank Of Papero polis Credit Card Rigetting System – mi segno il giorno e l’ora in cui parte ‘sta carovana, così faccio mettere di turno una mia collega stronza. Che si diverta a controllarli tutti, i nomi.

 

O (conclusiva): Faccia, io intanto ordino due pizze e un paio di birre. Sarà una lunga notte. Cianuro e rucola le va bene?

 

[otto volante]

Otto, ce l’avete presente.
Otto passerotto, fa rima e c’è, diranno i miei piccoli lettori.
Bravi.
Non era quello.

Otto Gabos.
Quell’incosciente che si dice contento se il Cagliari dovesse giocare le partite in casa a Reggio Emilia.
(Reggio Emilia è una città pericolosissima. A parte che ci girano Menozzi e Comifab a piede libero, ma una volta hanno pure cercato di assassinarmici)

(la faccio breve: sono a Reggio Emilia per non so più che cosa. La città è piena, ma la segreteria del non so più che cosa riesce a trovarmi posto in albergo. Alla reception, al momento di darmi la chiave, un impiegato invita il collega a sistemarmi nella dépendance dei terroni, testuale. Sopraffatta dall’accoglienza calorosa – che ricambio con altrettanta cordialità regalando al concierge una stimmata mentre gli rendo sul dorso della mano la penna con cui ho appena firmato il registro – prendo possesso della mia stanza ed esco a cena.

Prima di me, in segno di benvenuto, viene servito qualunque cittadino residente, pure se sta a casa sua e aveva già preparato; poi è il turno di Isabelle Autissier. Infine, quando anche l’ultimo mozzo di Melpomene ha ricevuto un pasto caldo e un sorriso, arriva la mia cazzo di pizza. Direttamente dal Camerun.

Ci bevo su dell’ottimo olio di semi tiepido e, riposte sul piatto le posate in parallelo a segnalare all’oste che la mia visita alle bellezze turistiche del luogo può dirsi conclusa, guardo il foglietto che mi ha deposto sul tavolo. Con un filo d’imbarazzo, gli dico che sono lusingata, ma il mio cuore batte per un altro (fidanzati della Sider, c’è chi ne parla come creature mitologiche e chi sostiene non solo che siano esistiti, ma di averli pure avvistati) e fra noi non potrà mai esserci altro che una tenera e innocente amicizia, preferisco essere chiara. Lui sembra non cogliere, mi mostra un dito (l’anulare, razza di malfidati) e indica la cucina, dove riconosco uno splendido esemplare di Erignathus barbatus. Io son tradizionalista, lo sapete, cose a tre con animali non me la sento. Moderate gli attestati di stima nei confronti dei miei ex.

L’oste strofina indice e pollice nel gesto universale che sottintende un certo disprezzo nei confronti del baratto. E sì che all’epoca si pagava in lire.  No, ribadisco, neanche in cambio di denaro, la signora è un bel pezzo di pinnipede ma il mio fidanzato ancora non ha cominciato a preferire Age of empire a una giovane dea nuda che lo supplica di farla sua. A proposito di denaro, però, com’è uso e costume – son certa – anche di quelle lande, gradirei saldare il conto del mio desco, prima di accomiatarmi. L’oste mi guarda stupito. Volto il foglietto dove mi ha scritto il suo numero di telefono, peraltro senza prefisso, e lo invito a indicarmi quanto dovuto. Lui rigira il foglietto dalla parte del numero. Basisco. Gli spiego che non intendo rilevare il ristorante. Lui suggerisce che la forza propulsiva delle sue pedate possa farmi raggiungere la mia prossima destinazione, qualunque essa sia, in metà tempo, ma io preferisco privarmi dell’incandescente movida reggiana e rientrare in albergo senza indugio e sulle mie gambe.

Il calar della sera mi sorprende a domandarmi se davvero sia il caso di trasferirmi nell’accogliente cittadina. Mentre dibatto vivacemente sul tema, la quiete è rotta da un picchiare forsennato alla porta. Una porta, si badi bene, per cui non si è badato a spese: carta velina finissima, che non si dica che nella dépendance dei terroni si lesina sulla qualità.
Ora, immaginatevi uno sconosciuto che urla in corpo 72:
– GAETANO! GAETA’! LO SO CHE SEI QUI, VIENI FUORI!

Tutta la buona volontà di questo mondo, ma nemmeno in mutande e con uno spazzolino da denti schiumoso in mano riesco a passare per un qualsiasi Gaetano.

– GAETA’! VIENI FUORI, CHE TI ACCIDO!
Ma tu guarda ‘stu fetente ‘e Gaetano, un messaggio così invitante e quello che fa? Si nasconde.

Provo a comporre il numero della reception per chiedere spiegazioni.
Il telefono è muto. Collegato, ma muto.
Provo con lo 0, col 9, con tutti i numeri e le lettere dell’alfabeto.
Più muto di una d muta.
Provo a fare il 113.
Bernardo in confronto è un chiacchierone.
Comincio a innervosirmi.

– GAETA’!
Contro la mia povera porta si stanno scatenando un ariete da sfondamento a cui hanno infilato un piranha nel culo, King Kong e Godzilla nemiciamici e tutti quelli scartati alle audizioni dei Tamburi del Bronx negli ultimi vent’anni.

– ATTENZIONE! E’ ARMATO!
E John Rambo.

Voi capite che il ritrovarsi in mutande, senza poter chiedere aiuto, a fronteggiare uno sconosciuto armato e incazzato con un tipo che pensa di trovare nella vostra stanza non facilita la presenza di spirito.

Mi levo le mutande.

Nel frattempo il cacciatore di Gaetani si sposta al piano di sopra (la dépendance è strutturata come una casa di ringhiera, però fatta di oro saiwa inzuppati). M’infilo una felpa, infilo la porta e scappo verso la reception, dove un lungo, pacato e forbito dialogo col concierge finirà per produrre magicamente la chiave di una suite con vista sull’interno dello stadio)

La prossima volta che dico “la faccio breve” abusate pure di me con un gatto a nove code. O viceversa.

Otto Gabos, si diceva.
Un uomo che non ha bisogno di presentazioni. Però se capita di incontrarlo si presenta, ché mica è cafone.

Ha un blog molto interessante, e non poteva essere altrimenti, che risponde al nome di Radio Herzberg.

Su Radio Herzberg, trovate, tra le altre cose, un’operazione che si chiama “Facce da libro”. Parla di facce e di libri, e funziona così:

“Penso a un personaggio di un libro di narrativa che ho letto e lo ritraggo a matita in un blocco di carta poverissima (…). A volte, quando esistono tra le pagine descrizioni più o meno dettagliate, mi confronto, a volte le lascio da parte piegando testo e personaggio alla mia immaginazione. Non tutti i personaggi sono protagonisti, a volte sgomitano tra le seconde linee, fanno massa silenziosa o quasi nel chorus line, a volte sono solo di passaggio. Inoltre non tutti  fra quelli che sto ritraendo appartengono a libri memorabili o che mi sono piaciuti nella totalità delle loro parti. I personaggi però loro sì che mi sono piaciuti. Loro sì che nel mio piccolo pantheon di ricordi letterari occupano un posto a sedere. Avrei poi potuto postarli senza l’alleanza delle parole, ma poi mi è sembrato bello affiancare delle riflessione, schede minime, suggestioni trasversali. Poca roba, quasi un appunto di un diario, un consiglio di lettura. Un gesto leggero di condivisione. “

Potevo non appassionarmici?

No che non potevo. Fa venire voglia di leggere i libri di cui parla e che non hai letto, fa venire voglia di ritrovarsi davanti a una birra a raccontarsi di altre facce e altri libri, fa venire in mente altre storie, che forse un giorno saranno disegnate e forse no. Fa viaggiare l’immaginazione, addirittura anche oltre i confini di Reggio Emilia.

L’idea, poi, era quella di postare 365 disegni, praticamente uno al giorno per un anno. Uno di quei progetti velleitari che solo quelli nati sotto il segno dei Gemelli possono inventarsi. Perché non è mica vero che siamo inaffidabili, signori della Corte, produciamo solo molte più idee di quante il nostro chassis possa supportarne.

[the sound of silence]

Dice “che bello il treno con l’area del silenzio, finalmente puoi sparare a vista a tutti quei buzzurri che sembra che lo facciano apposta, stanno a terra e c’hanno una suoneria normale, ma ogni tanto prendono il treno solo per metterla a volume massimo, possibilmente dopo averla cambiata da un dignitoso trillo vintage alla peggio lambada di periferia. E prima di partire avvisano i parenti (per parte di padre, di madre e di fava, fino ai post-cugini il cui grado lo devi calcolare con un’equazione a tre incognite, una delle quali è la madre del fine musichiere che gli ha composto la suoneria) e tutti gli amici di Facebook di chiamarli tra le cinque e le sette che stanno sul treno”.

(A questo punto potete prendere la rubrica bisunta che tenete vicino al telefono, aprirla alla lettera H e cominciare a chiamare Mission Control)

No, perché a me quelli che si fanno chiamare apposta per rispondere che stanno sul treno mi ricorda tanto il periodo in cui i cordless muovevano i primi passi sulla terra, perlomeno su quella che calpestavo io. Caput Mundi, anno domini 1989. La mia seconda casa romana, un appartamento zona Cinecittà in coabitazione con una pazza abruzzese che chissà per quale motivo s’era messa in testa che parlare tedesco fosse ciò che le riusciva meglio nella vita, e il di lei fidanzato, un giovane paziente e di bell’aspetto, che rispondeva al nome di Rosario ma che per brevità chiameremo “il paziente calabrese”. Nota a margine: la pazza veniva da Roseto degli Abruzzi. S’è trovata un moroso di nome Rosario. Ancora oggi, se sono costretta a pensare a lei me la immagino tipo Mosé nel roseto ardente, e non costringetemi a chiosare su quello scotto, signore pietà.

Comunque. Che la tipa era pazza l’ho detto? Fidatevi. Per spiegare i sintomi ci vorrebbe un’altra ora di treno, e fra dodici minuti devo cambiare. Fatto sta che si compra ‘sto cordless. E per due mesi – due mesi – non fa altro che portarselo appresso al cesso (e fin qui) e ivi chiamare gli amici solo per il gusto di dir loro: indovina cosa sto facendo?

(dieci minuti. Mollare la pazza sul cesso che scotta, tornare in treno)

L’area del silenzio sul treno, si diceva. Quella dove, procurando di non eccedere coi decibel (minuscolo), si è legittimati a ridurre in poltiglia chiunque emetta rumori molesti, dal corpo principale o dalle periferiche.

(otto minuti)

Un surrogato di paradiso.

Anzi, di più, perché sul vagone siamo in due, la sottoscritta e una signora che sfoggia il logo Hermès pure sull’interno palpebra. Una di quella di cui non si può dire che abbia la puzza sotto il naso perché la parola “puzza” è troppo volgare per stare nella stessa frase con lei.

(cinque minuti. orcazzozza)

Vabbè, sono al settantacinquesimo palleggio dei miei bei pensieri su quanto è bello stare su un treno con gente civile che non strilla in un telefono tipo macchina della varechina quando un rumore atroce squarcia l’agognato silenzio. Un rumore tipo lamiera che si accartoccia, tipo cartilagini tritate, tipo mucillagini maciullate. Non esattamente il rumore più rassicurante che si voglia sentire su un treno.

(stazione. non sapremo mai come va a finire. addio. vi ho sempre amato, non tutti, ma con alcuni un altro giro me lo sarei fatto volentieri)

[aprile per noi]

(il mese di aprile è volato. Non sparito, niente affatto. E’ stato denso, farcito di cose fino a scoppiare. E di cose piacevoli, per giunta. Di quei piccoli, immensi piaceri che sarebbe troppo difficile, o lungo, o inopportuno spiegare, e che probabilmente alla maggior parte di voi non direbbero granché. Tipo stare in piedi in un vialetto di Villa Borghese che fino a trenta secondi prima pareva insignificante, e improvvisamente diventa l’epicentro della felicità (dice: ti accontenti di poco) (no. fidati),  per – minuti? ore? la questione del tempo che fa un po’ quel cazzo che vuole è rimasta in sospeso, ma andrà riaffrontata, prima o poi – a fare niente se non sorridere e sentirsi in vacanza, e imprecare contro i gruppi di turisti attempati che si attardano intorno ai minibus, gli venisse un bene o un raggio di smaterializzatore, a scelta. Tipo fare il tour guidato dell’Auditorium Parco della Musica, e concordare sul fatto che a noi non ci fregano, sulle porte di comunicazione fra una dimensione e l’altra. Tipo sacrificarsi per fare il collaudo de Il campo Rom e porre finalmente la parola “risolta” sull’annosa questione delle ostriche. Tipo che ai Di Meo dovrebbero dare il ministero della famiglia, a Blo quello dell’accoglienza e a Dottorini quello dei letti a scomparsa, la sua. Tipo farsi guardare con sospetto e apprensione dai portinai di corso Italia. Tipo sghignazzare con la bocca piena della stessa pizza. Tipo che ai compleanni importanti non si può mica mancare. Specialmente quelli che durano due giorni. Tipo che sentire Tamacoldi ripetere per sei ore “grazie di avermi portato qui, adoro le spezie”, solo quello valeva il viaggio. Tipo scoprire che Dellaca’ è molto più bello dal vivo, che il caffè della Petunia non si beve alla mattunia, tipo dimenticare una sottoveste di seta nera dopo una notte con Sam, tipo i braccialetti tattici di Betty e i perché di Lens, tipo che Ferrua ha fumato più di Ugo, tipo due mani sul collo e il dubbio – fondato – che volessero strozzarmi, tipo le class action di Sinibaldi, e l’assenzio, e Stella in posa per Helmut Newton, e le poesie di Lelio, e quel povero tassista, per carità d’Iddio. Tipo andare a tastoni tipo cieca di Sorrento alla ricerca degli occhiali misteriosamente scomparsi a Villa Sguinzo, e il materializzarsi di uno dei peggiori incubi di un miope, quello  di doversi mettere in viaggio senza vederci un cazzo. E tipo un sacco d’altra roba, che io lo sapevo che non dovevo manco iniziarla, la premessa, e in realtà dovevo solo scrivere: il mese scorso ho avuto un sacco da fare, ‘sto post era qui da un po’, ma siccome stasera fanno le ultime repliche di “Dark room” e se non ci siete andati siete ancora in tempo, ecco, ve lo beccate così”)

Aria di primavera, finalmente. Dopo una serie di prove tecniche cadute nel nulla, finalmente.

Aria di primavera + belle serate particolari.

Prima regola di “Dark room”: non si parla di ciò che succede in “Dark room”.

Non ne parlerò, infatti. Mi permetterò solo di dire che se non ci fate un giro vi private di un’esperienza molto particolare, in cui sensualità, libertà e curiosità la fanno da padrone, e il buio diventa una dimensione da esplorare. Con cinque sensi, ma non i soliti, perché l’immaginazione prende il posto della vista. La parola d’ordine è: lasciarsi andare. Lasciarsi andare anche a un sorriso, pensando alla nota che la Compagnia B ha dovuto aggiungere strada facendo, ovvero che “si tratta di una performance di teatro sensoriale intitolata “Dark room”, non di una vera dark room”. Che a me personalmente m’ha fatto venire il mente quelli che si bevevano il Tantum rosa, ma è un problema mio.

(altre cose mi ha fatto venire in mente: Mucca, Omar che chiede se può uscire e tre voci che gli rispondono “no!” in coro, il mio compleanno, un sorriso che mi manca e non sto a dirvi quanto)

E poi Skepto. Di Skepto si può parlare, eccome. O meglio, se ne potrebbe parlare se questo post non avesse ormai assunto le dimensioni di un brontosauro, e quindi mi limiterò a segnalare alcuni dei cortometraggi che mi hanno colpito di più nel corso di questa edizione:
 

Desayuno con diadema, di  Óscar Bernàcer

Finale, di Balazs Simonyi (purtroppo il link porta solo al trailer)

Perfetto, di Corrado Ravazzini

Non mi son trovata per niente d’accordo con la giuria riguardo al premio come miglior corto d’animazione, ma proprio per niente, ma magari ne parliamo un’altra volta. Intanto, per chi volesse curiosare:  www.skepto.net