[the bends]

– Buongiorno, vorrei del raso nero, doppia altezza, per favore.

– Ne tengo uno bellissimo alto tre metri. Diegarmando, vallo a piglia’ per la signorina.

L’accento partenopeo racchiude in sé lo spirito del commercio. A tutti i livelli, dal trasformare questo locale commerciale 400mq più servizi, luminosissimo, centralissimo, due vetrine fronte strada nelle viscere del Grand Bazaar di Istanbul, alla tratta dei bianchi operata quotidianamente sui traghetti da e per le isole.

Come se non bastasse l’essere stata appena dislocata geograficamente in almeno altri tre posti diversi dalla sola forza di una cadenza e di un’associazione di idee, la prospettiva dei tre metri d’altezza mi spalanca davanti uno scenario talmente meritevole di attenzione che mi sfugge completamente la domanda successiva. Solo quando Diegarmando torna con il rotolo e lo sbatte sul banco con l’inesperienza dei suoi diciassette anni, plano e capisco di essermi persa un pezzo.

– Dico, per-cosa-vi-serve?

Il mercante sa il fatto suo. Oltre ad essere curioso come una scimmia, sa che si viene qui perché non rifilerebbe mai un articolo inadatto pur di concludere la vendita. Ripete la domanda, perfettamente logica e prevedibile.

Di quella prevedibilità logica che coglie perfettamente impreparati.

Ciononostante, apro la bocca seguendo l’impulso primordiale.

Realizzo.

Mi blocco.

La chiudo.

Io ci provo, a star seria, ma sulla linea delle mie labbra ferve un movimento che manco sulla tolda dell’Hispaniola o nello studio del marito della Daniela Garnero: tira su, no, tira giù, cazza la randa, molla il pappafico, finché la forza di gravità capisce che la battaglia è persa, molla gli ormeggi e lascia che gli angoli della mia bocca si sollevino e puntino, inarrestabili, a bucare il soffitto.

E mica ti può andar bene sempre, cocca.

Il mercante di rasi non si scompone. È un omino arzillo sui sett…ott…novecentotrentasei anni, mese più, mese meno.
Mantenuto in forma dal manipolare quotidianamente le esigenze di dozzine di donne di tutti i tipi, tutte le età, tutti i colori e non è escluso che in alcuni casi abbia approfondito anche il versante sapori.
Aduso a soddisfare le richieste più strane:

– Mi serve del percalle per un bouquet.

– Il percalle lo usa per le lenzuola del corredo. Che tipo di bouquet deve confezionare?

– Di calle.

– Scemo io.

 

– Questo pile qui, ce l’ha anche con disegni di altri animali?

– Quello ce l’abbiamo con cagnolini, gattini, coniglietti, topolini, pulcini, elefantini e ranocchie.

– Iguane no? Devo fare il cappottino per la mia iguana, mica le posso mettere addosso un altro animale, si offende.

Da gentiluomo qual è, però, non può non apprezzare le sfumature della discrezione.
D’altra parte, il mercante di tessuti è come il medico, se non gli dici tutti i sintomi non può darti la cura giusta. Quindi.

– Devo fare delle bende.

Tecnica. Seria e professionale, gli angoli della bocca hanno smesso di treninare “brigitte peugeot peugeot” per il negozio trascinando matrone dallo scampolo facile e sarte segaligne poco inclini a scollare, e son tornati al loro posto.

– Delle bende tipo…mummia?

Il mercante si fa cauto.

– Nonno, quelle sono bianche, di lino. Queste le deve fare nere. Come quelle dei condannati a morte.

Diegarmando, una testa non del tutto sprecata a far da sostegno a barili di gel.

Ma è giovane.

È giusto che chi ha un potenziale abbia uno scopo, ma se procede prima del dovuto si smarrisce; se invece trova una guida e la segue otterrà il suo stesso beneficio (propizia è perseveranza).

Il mercante lo guarda con affetto, sorride e gli legge il futuro attraverso.

– Diegarma’, quella la signorina ha intenzione di farli morire, ma mica fucilandoli.

Mercante di rasi 4 – Resto del mondo 0.

O rei è ben saldo sul trono, Diegarma’.

[il gran turchino chiama]

Ho un ottimo senso dell’orientamento. 

Mi si abbandona nella giungla, nel deserto, in mezzo al mare, in un condominio di Kowloon: ne esco senza problemi. Non solo, mi metto pure a dare indicazioni ai viandanti che mi scambiano per una del posto e chiedono dove possono trovare un tabacchino o l’ufficio postale. 
Mi oriento dappertutto.

Dappertutto.

Tranne che in questo cacchio di buco nero.
(e nei paesi il cui il sindaco ha in uggia gli arbitri da quando gli venne fischiato un rigore (nettissimo) contro quando giocava nei pulcini, e da allora si vendica emettendo ordinanze che vietano il posizionamento di cartelli che indichino come tornare in un qualunque posto segnalato su Google maps. Ma questo è un altro discorso)

Sono al quarantaduesimo giro di via Maroncelli. “3 laps to go”, mi avvisa un cartello beffardo fuori dal civico 18. Non vi auguro vi esplodano i pozzi neri di tutto il quartiere solo perchè, con l’andazzo di stamattina, è praticamente certo che succederebbe adesso.

Improvvisamente la facciata di un palazzo si muove. 
Lo sapevo, maledetti, lo sapevo che non potevo essere io, il problema. Queste carogne infami, questi mentecatti dall’animo incancrenito – e no, vivere in un posto demmerda, in questo caso, non è una scusante. Bisogna essere marci dentro, l’anello di congiunzione tra Flavia Vento, Anastasia, Genoveffa e John Doe, per decidere di stabilirsi qui – questa gente arida che non ha altra gioia al mondo se non provocare incazzature al prossimo ha allestito un sistema di edilizia abusiva che permette loro di modificare a sfregio la topografia della zona. Ci passi una volta, e davanti hai una strada. Al giro successivo, al posto della traversa c’è un muro di recinzione. Al giro successivo ancora, la sede della scuola di snowboard (ve lo giuro, c’è, è in via Toti. Mi piacerebbe attardarmi a discutere dell’utilità di una scuola di snowboard in un posto dove il dislivello massimo è di 15 centimetri e l’ultima neve è caduta nell”84, ma vorrei essere a casa prima di notte).

Comunque.

Al quarantaquattresimo giro, là dove c’era l’erba ora c’è una palazzina a tre piani. Brutta come solo le palazzine di queste parti possono essere, brutta da far sembrare il realismo sovietico la culla di tutte le arti. Brutta.

Giocoforza, mi fermo.

Sollevo lo sguardo.

Stesi, al balcone del primo piano, ci sono tre calzini.

Tre.

Mi state prendendo per il culo, io lo so.

Solo il demonio sa quanti cacchio di accoppiamenti fra parenti di primo grado sono arrivati a produrre la generazione che attualmente popola questo quartiere derelitto, ma la letteratura scientifica parla senza possibilità di equivoco di figli con la coda di maiale, non con tre piedi.

Li riguardo, metti mai un’allucinazione.

Sempre tre.

Di colore diverso, ora che li osservo meglio.

Ora che li osservo meglio e scopro che avrei fatto meglio a cecarmi un occhio, pur di non sapere.

Lo so che penserete che son la solita cazzara, ma ve lo giuro sulla mia copia di “Disegni e Caviglia colpiscono ancora” autografata da essi medesimi, sono

uno verde

uno bianco

e uno rosa

Roba da farsi dichiarare guerra da Terranova all’istante.

Non li ho potuti fotografare perché

a) mi son cadute le braccia

b) lo stesso balcone è presidiato medicalmente e chirurgicamente da una tizia, bella come la carcassa di un topo frollato al sole ma in compenso con l’espressione cordiale di un cesso intasato.

L’ultima particella di spirito di out o’conservazione rimasta in sospensione nelle libagioni di ieri in onore della Maga mi suggerisce di tornare indietro. Non è vigliaccheria, continuo a ripetermi, è che chi penserà a Topa se mi succede qualcosa? Chi si ricorderà di pagare il condominio con sei mesi di ritardo? Chi scenderà a portare giù l’umido nel giorno in cui ritirano la plastica?

Ok, va bene, è vigliaccheria.

Inserisco la retromarcia con nonchalance, come se volessi solo controllare se ce l’ho.

E sono

ancora

qui

nel maledetto vicolo del cazzo che non solo si è ristretto improvvisamente, ma ha pure fatto spuntare una serie di maledetti gradini dalle soglie, aggiunto dissuasori e fioriere che prima non c’erano e, dulcis in fundo, storto tutta la baracca in modo da farla diventare una fottutissima curva cieca.

Mayday! Mayday! Mayday!, ripete la radio di bordo.

Non vi chiedo di spianare la zona a cannonate, sarebbe troppo bello.

Basta che mi portiate una birra.

O una capsula di cianuro, è lo stesso.

[so this is christmas]

Le tradizioni.
Oh, le tradizioni.
Che belle, le tradizioni.
Cosa saremmo mai, senza le tradizioni.
(ok, il concetto è chiaro, grazie)
C’è chi minaccia di diseredare i figli se, non importa in quale parte del mondo si trovino, non si riuniscono la sera del 24 dicembre a cantare “Oh Tannenbaum, oh Tannenbaum” e altri improbabili titoli di film di Wes (al netto di Dori Ghezzi) Anderson che gli svizzeri sono convinti siano canti di Natale (ciao Margrit, du bist immer meine Liebling).
Ci sono quelli per cui non è Ferragosto senza un bel paiolo rovente di polenta al gorgonzola gustato in terrazzo col sole a picco (80 gradi fuori, 80 gradi dentro, dice “il segreto è mantenere la temperatura costante, così dopo puoi fare subito il bagno”).
E poi ci sono quelli che vengono dimenticati nei posti.
Monferrato, novembre 2012.
Prendiamo possesso di Alba rossa, che non ha mai avuto nè mai avrà il nostro scalpo, riservando la camera più leziosa ai due maschi più etero, che da allora si chiamano Lentina e Puccibalda.
Per le tre del pomeriggio siamo tutti brilli.
Intorno alle quattro nessuno si aspettava fossimo così tanti, nè tantomeno che tutti, ma proprio tutti, avessimo un gemello omozigota. In questo stato è d’uopo mettersi in macchina e andare a raccattare gli ultimi viandanti alla stazione di Monferrato Centrale guidando per dossi, cunette e curve pericolose come si fosse al Mugello, ma in groppa a un dromedario ubriaco.
Verso le cinque, un noto avvocato della zona percuote verbalmente con violenza una vecchia. Entrambi confesseranno in seguito che la cosa costituiva il proprio desiderio erotico più inconfessabile da una vita.
Che ora s’è fatta? Ora di andare a cena, di modo che Ugo possa raccontare ai postumi di quella volta che per fortuna ad Ayala avevano tolto la scorta, altrimenti a quest’ora organizzeremmo un torneo di calcio a 5 alla sua memoria. Maremma Ayala, stacce.
Il gruppo si mobilita. Chi si preoccupa di scolare i bicchieri, chi di far sparire salsicce. Un’unica idiota tropicale sale in camera a prendersi un maglione pesante.
Riscende.
Fa per aprire la porta.
Nulla.
Riprova.
Rinulla.
Attraversa il salone, saluta la panca come se la vedesse per l’ultima volta, arriva alle altre scale, prova l’altra porta.
Saratoga IL silicone sigillante, l’hanno girato qui.
L’idiota tropicale guarda la porta.
Mastro di chiavi, non c’è mai quando serve.
www.groupon.com, cerca, corso online di 9 minuti per diventare Lady Porta.
Offerta scaduta.
Maledizione alla struttura mediterranea, poteva restar chiusa dentro Tamacoldi, che almeno sarebbe passata attraverso le sbarre delle finestre.
L’uscio è solido, nel Monferrato oh, ci tengono a queste cose. L’idiota tropicale valuta la possibilità di passare la notte a bestemmiare il santo protettore degli infissi con una spalla lussata, poi ci ripensa. Nel frattempo batte sulla porta e chiama, chiama forte gli amici, ma la sua voce ritmata dai tonfi si propaga liberamente per il parcheggio che, ad un esame superficiale, si direbbe deserto.
Ohibò.
Dopo un’analisi frenetica di qualunque apertura della casa, ivi comprese la canna fumaria, gli scarichi dei lavandiniwaterdoccebidet e i condotti dell’aria condizionata al grido di “grazie al cazzo, Bruce Willis!”, finalmente una porta si apre.
Su un panorama quieto, stellato, gelido.
Ad eccezione dell’idiota medesima, non una forma di vita nel raggio di chilometri.
Cazzo, pensa l’idiota medesima, va’ che bravi nel Monferrato, le catastrofi nucleari le fanno senza manco sporcare.
Si concede un ultimo tentativo prima di scomparire nell’oblio.
– Outina mia adorata, rugiada del mio trifoglio, stella del mio orizzonte, naso del mio cane da trifola, pronto!
– Ferrua, senti, una domanda oziosa. Vi siete mica dimenticati qualcosa?
– Noi? No (confabulare gioviale in sottofondo). Cosa ci dovremmo essere dimenticati?
Atlantide, vigilia di Natale 2013.
– Ma sì, dai, dobbiamo cenare a cinquecentro metri di distanza, non ha senso andare con due macchine.
– Ok, allora lascio la mia sotto casa tua e andiamo insieme.
– Perfetto, ti faccio uno squillo quando sto andando via, così ti fai trovare pronta, perchè mica voglio far tardi, ché domani sono a pranzo da.
Complice un virus miracoloso che impedirà a Cognata di avvicinarsi ai fornelli per tutte le feste, alle 21.47 il cenone di Natale a casa Cupiello è bello e finito con l’incredibile punteggio di zero killed. I due avvoltoi barellieri sbaraccano mestamente da bordo campo augurandosi che il produttore di antiemetici si riprenda indietro la pedana intonsa.
Tre persone mediamente sofferenti si ritirano al piano di sopra.
Tre persone decisamente brutte e cattive si rincorrono per il salotto innaffiandosi di champagne.
Non resta che fare orario fino alla mezzanotte.
Su Raiuno pregano. Telefoniamo al numero in sovrimpressione per ringraziarli del pensiero e informarli dello scampato pericolo. Bergoglio intona “Filho maravilha” e fa partire il trenino. Il presidente della Repubblica interrompe le trasmissioni per esprimere, a reti unificate, viva e vibriona soddisfazione. Mia madre – o meglio, The Lady Formerly Known As My Mother – lo minaccia con uno sformato antiuomo avanzato da Ferragosto e dichiarato non smaltibile, lui dà la colpa alle lenti bifocali, abbozza e sparisce.
Le undici.
Costruiamo palafitte a Parco della Vittoria spacciandole per resort di lusso, a turno ci indignamo quando qualcuno pesca l’indulto e tutti ci rifiutiamo di usarlo, una perchè politicamente pirla, gli altri due perchè tanto all’età loro più che i domiciliari non si beccano, dicono.
Mezzanotte.
Mio padre, per lanciare un segnale di distensione, fa gli auguri in pigiama.
Mezzanotte e dieci.
Tutti e due sbadigliano in maniera ostentata.
Mezzanotte e venti.
Ricordo loro che non son venuta con la mia macchina, ma è questione di minuti.
Mezzanotte e mezza.
Primo tentativo di trattenermi lì pur di chiudere la porta e andarsene a letto.
All’una meno un quarto chiamo quello che un tempo consideravo un amico affidabile. Segreteria telefonica.
Lascia stare che non sei capace, faccio io. Mio padre, nervosetto. Segreteria telefonica che non guarda in faccia a nessuno.
Colpa della taverna, affermo fiduciosa. In taverna non prende.
La signora che continuo, nonostante tutto, a chiamare mamma, la stessa che una volta mi tirò uno zoccolo preferendo vedere la sua primogenita – già allora avrei dovuto capire qualcosa – spiaccicata al muro come una zanzara piuttosto che sentirle dire “cretino” al fratellino, inizia garbatamente a dire la sua sulle taverne, su chi le costruisce, su chi le abita e chi le frequenta.
Papà chiama l’esorcista.
Secondo tentativo di trattenermi lì a dormire, vedi alla voce “stroncato sul nascere”.
Nel frattempo continuiamo a cercare di contattare in tutti i modi possibili quello che fino a quel momento era un vecchio amico di famiglia. Tranne la SWAT e i testimoni di Geova gli mandiamo di tutto.
All’una e cinque decido di avviarmi verso la taverna in questione e recuperare il mio passaggio. O più probabilmente di ritrovarmi intervistata da Studio Aperto in merito alla fuga di gas che ha sterminato una famiglia di 72 persone.
Mio padre cerca di trattenermi tirando in ballo i cecchini sovietici.
Lo guardo negli occhi: ormai sono grande, posso reggere le notizie più atroci. Gli chiedo quando è stata, ma mi deve dire la verità, l’ultima volta che ha mangiato qualcosa cucinato da Cognata. Domenica scorsa, risponde coprendosi gli occhi. C’erano anche i consuoceri, non c’era scampo.
All’una e diciannove della notte di Natale sono in mezzo alla strada senza neanche il conforto di una bufera di neve per rendere la scena più drammatica. E all’una e venti lo sventurato risponde.
– Oh, cazzo.
Segue indistinto farfugliamento di scuse, attutito, come se stesse parlando da sotto un piumone.
Come se.

[come quando fuori]

Piove.

Le tamerici salmastre non fanno un plissé.

La solitaria verdura si trastulla su YouCorn.

Modugno vorrebbe trovare parole nuove per definire Jovanotti, che guardando come piove s’è comprato un pentavano tra le perplessità dei Cult.

Il cagliaritano medio subodora qualcosa.

Sulle prime non capisce, poi – con un’intuizione degna di Larrivey – si affaccia alla finestra.

Guarda a destra.

Niente.

Guarda a sinistra.

Niente.

Tranne che se stesse attraversando la strada l’avrebbero già stirato.

Solleva lo sguardo.

Bullet time: fissa la madre di tutte le gocce trafiggergli omaso, abomaso e sfociargli in peritonite perché nel frattempo ha spalancato la bocca in un parossismo di terrore.

Torna a velocità normale.

Audio. Decibel, watt, cristalli infranti. Slavine.

Ok, panic.

 

I motivi per cui l’abitante di una terra circondata dall’acqua regredisce allo status di Pithecanthropus consternatus in presenza della pioggia non risultano tuttora chiariti. Forse memore della sommersione di Atlantide, di cui ricordiamo il notevole remake del 2008, il cagliaritano medio ha elaborato una strategia che, se pure non gli garantisce la sopravvivenza alla catastrofe, gli consente comunque di rendersi riconoscibile nel panorama delle specie di futura estinzione.

Alla prima goccia, il cagliaritano medio assume la caratteristica espressione da urlo di Munch, mantenendo la quale si premura di dare la notizia ai parenti, ai vicini, ai lontani e a tutti gli amici di Facebook. Di questi, tutti quelli che non commentano a tema con grande scialo di allarmismo, vocali e punti esclamativi, che non cercano il sindaco e/o non mettono manco un like cancarato, vengono depennati pure se sono le svedesi bone conosciute a San Teodoro l’estate prima. Spesso si tratta di un falso allarme, è solo la signora Putzolu del sesto piano che innaffia la peonia, ma non si sa mai.

Alla seconda goccia, tira fuori dall’armadio la divisa da lagunare della Serenissima vinta a scala quaranta a Ferragosto al marito foresto della cugina che vive a Piove di Sacco, e comincia a mandare in loop a volume altissimo le cassette dei Rondò veneziano per caricarsi.

Alla terza goccia afferra un megafono e attacca a urlare istruzioni per riempire l’arca, dando la precedenza agli animali da cortile e ai santi col priority boarding.

Di norma, il diluvio si arresta prima della quarta goccia, e il cagliaritano medio è costretto a limitarsi a dichiarazioni post-partita in cui a parole promuove l’assetto della squadra e attribuisce alla sfortuna la mancanza di occasioni, mentre dalle espressioni facciali si evince una certa carenza di bifidus activus nella sua dieta quotidiana.

Ma di tanto in tanto Giove pluvio esagera e ne rovescia una tazzina. A volte addirittura una mezza pentola. E allora sì che il cagliaritano medio dà il meglio di sé. Perché quando piove davvero, la cosa migliore che un cagliaritano medio possa fare è mettersi in macchina e uscire senza che ve ne sia alcuna necessità. Otturare le strade al primo spruzzo di pioggia, per il cagliaritano medio, è un dovere civile. In nessun altro posto come in mezzo a viale Marconi intasato può esternare tutto il proprio comprensibile, condivisibile et eziandio legittimo stupore per il fatto che a metà novembre cominci a piovere.

(non chiedetevi cosa ci faccia un cagliaritano medio in viale Marconi quando piove; chiedetevi cosa può fare viale Marconi quando piove per lui)

Una cosa però gli va riconosciuta. Il cagliaritano medio non discrimina. Il cagliaritano medio è equo. Spesso anche solidale, ma soprattutto equo. Con la q. Dedica a ciascuna goccia la stessa attenzione, senza disparità, senza preferenze, chinandosi per scrutare il cielo oltre l’orlo del parabrezza e osservando ciascuna per lo stesso numero di minuti. L’interesse che mostra  per i tamponamenti? Triplicatelo e avrete quello che riserva alle gocce. Tutte, nessuna esclusa.

E intanto piove.

(uno stillicidio

zeppo di tonfi di motorette e strilli

di bambini)

Si procede a passo d’uomo.

Recentemente operato al menisco.

Si socializza, si scopre che si conoscono di fama le reciproche madri e sovente anche i padri, le cateratte favoriscono un’intimità in cui nessun dettaglio può restare privato, nemmeno a tre macchine di distanza. I gesti riportano, a quelli più lontani, affinché non si sentano esclusi ma – anzi – possano partecipare al dibattito, il dettaglio di volumetrie e proprietà dilatatorie che poco hanno del millimetrico. Uno zoologo prende appunti da un’Agila, riservandosi di verificare.

Si esorcizza la morte per annegamento in cunetta strombazzando ritmi sincopati, le sincopi dirette a quelli che si attardano a sottolineare le differenze tra la goccia n°794 e la 795. Il legittimo sbigottimento pluviale cede il passo prima al fastidio, poi all’irritazione, infine all’oltraggio puro, queste cazzo di gocce che arrivano dal continente a rubarci il lavoro, il nostro lavoro fatto di sudore sotto le ascelle delle magliette quando pranziamo al Poetto. Il 10 di novembre. Scalzi.

Cominciano le prime allucinazioni. All’ennesimo verde perso, quello con la divisa da lagunare sale sul tetto della macchina e comincia a declamare

Come lo scoglio infrango

Come l’onda travolgo

E viene risospinto dentro da una bordata di

Cummenti is callonis chi c’as scroxiau a ghiaia, spesari’ a casinu!

La pioggia non accenna a scemare. Dalle macchine, invece, si scemeggia in abbondanza. Due appassionati di vela discutono su chi abbia la precedenza all’incrocio di via Newton:

–          Randami ‘sto cazzo!

–          No, me lo randi prima lei!

Il cagliaritano medio comincia a sentirsi l’acqua alla gola pure se a terra non supera i tre millimetri. Nelle case si rafforzano gli argini delle portefinestre coi mezzi di cui c’è più disponibilità: gli asciugamani da mare.

Sale l’angoscia, quella sì, quella acre generata dal pericolo. Perché il cagliaritano medio si preoccupa che gli entri l’acqua in casa pure se abita in cima alla torre di San Pancrazio e gli ha appena citofonato san Pietro per chiedergli se possono salire da lui, ché giù da loro c’è un po’ di umidità. Due palombari aspettano il traghetto per attraversare via Vienna.

E poi accade l’imprevedibile.

Tutto si ferma. Tutto, anche il rumore. Non si sente volare una madonna.

Un arcobaleno perfetto, vivido da sembrare solido.

Scendono dalle macchine con gli occhi sgranati, tutti improvvisamente amici, cagliaritani e quartesi, idrorepellenti e repellenti e basta.

La cosa più bella del mondo.

L’arcobaleno, non i repellenti.

È ancora lì quando entro nel girone infernale. La macchinetta dei numeri è stata sradicata dal muro. Un’orda di huruk-hai brandenti impegnative tiene sotto assedio una porta. Quattro individui di sesso imprecisato attaccano qualunque camice di passaggio con la bava alla bocca, tenuti indietro a stento da parenti che vorrebbero sotterrarsi. Hieronymus Bosch schizza alla buona in un angolo per non perder gli spunti. Un hobbit annuncia che ha olio di proprietà da vendere, per chi fosse interessato.

Il mio chirurgo ha un’urgenza, e con lui Camice amaranto. Mi tocca seguire il camice azzurro di una che si è appena vantata con la collega di non leggere mai, niente, manco le istruzioni dei cannelloni surgelati. Leggere è una perdita di tempo, dice, “se voglio vedere cinquanta sfumature di grigio mi basta guardare i peli del pistillone [testuale] di mio marito e mi passa la voglia”.

Mi zappa in faccia con la delicatezza di un pitbull in crisi d’astinenza che sente un chilo di coca venti centimetri sottoterra. Esco con le lacrime agli occhi dal dolore e una medicazione inutile che ho provato inutilmente a farmi rifare. “Gliel’ho fatta bellina, che è ragazzina, quelle brutte lasciamole ai vecchi. Di cosa si lamenta?”.

Di niente.

Fuori, l’arcobaleno è ancora lì.

[anche goldrake, nel suo piccolo, s’incazza]

[attenzione: il post che segue contiene linguaggio più esplicito del solito. Chi pensa di poterne restare infastidito non venga poi da me a chiedere risarcimenti per l’acquisto di bastoni bianchi o cani guida]

Tutte le cose belle finiscono, usava dire un mio ex riferendosi al proprio periodo refrattario.

Il KME non fa eccezione.

(mettete via i fazzoletti, non è ancora il momento dei ringraziamenti, della commozione e dello smodato consumo d’alcool che farà tracimare oltre gli argini ogni tipo di commento impudico sul fonico del Pan del diavolo)

L’effetto principale della fine del KME è che posso tornare a scrivere.

(non è vero. L’effetto principale della fine del KME è che posso finalmente smettere di indossare le stesse mutande da una settimana.

– Ma che schifo!

– Non ho detto che sono le stesse. Cioè, sì, l’ho detto, e sì, sono le stesse, ma perchè le lavi la notte sotto la doccia e te le rimetti la mattina dopo.

– Le stesse.

– E certo, hai i minuti contati sempre, non te lo puoi concedere il lusso di perdere tempo a cercarne altre. Per quello devi essere brava a sceglierle il primo giorno.

– E se ti capita di… sì, insomma, con…

– Regola numero uno del bravo direttore di produzione: quando si è in servizio non capita.

– Essere incommensurabilmente pirla è uno dei requisiti contrattuali del bravo direttore di produzione?

– Ovvio. E comunque i gruppi girano, la stessa mutanda due giorni di seguito non la vedono mai.

– Sì, ma i tecnici?

– I tecnici sono nella nostra stessa condizione, se capita, capiscono.)

E quindi. È un po’ che volevo condividere una riflessione sulle parole comunemente utilizzate per offendere. E su quanto spesso, a ben vedere, alcune di esse vengano usate in maniera inappropriata.

Puttana, per esempio.

Come ho avuto modo di chiarire ad un collega, qualche tempo fa, “puttana” è una professione, non un insulto. Poi, se vogliamo prenderci tutti a botte di “commercialista!”, “brutto pizzaiolo che non sei altro!”, “figlio d’un geometra!”, “architetto te e tre quarti d’aa palazzina tua!” e “netturbino da quattro soldi”, liberissimi.

Testa di cazzo.

Ora, siamo onesti. Un uomo nudo in avanzato stato di eccitazione è buffo. Se non lo è, o è amore o somigliava bene.

(all’amore, non a un uomo nudo)

In ogni caso, la parte lì, di per sè, è apprezzabile. Talvolta pregevole. Fonte di grandi soddisfazioni, con essa vivremo sempre liberi di peccare e sicuri di ogni turbamento.

Da dove arrivi la valenza negativa resta un mistero.

(mi direte: mica lo scopriamo oggi che le definizioni che richiamano il sesso femminile hanno sempre un’accezione positiva e quelle che si rifanno al sesso maschile sono generalmente sinonimo di negatività. Ma perchè? Passi che siamo noi, sacerdotesse del multitasking, dall’alto di quella irresistibile supponenza revanscista, di quell’incontestabile superiorità femminile che ci rende così amabili – soprattutto quando si abbina a quel pizzico di delizioso autolesionismo che ci spinge a trattare dei maschi adulti come bambini o ritardati mentali incapaci di lavarsi da sè la divisa con cui hanno giocato a hockey nel fango dentro un cassonetto dell’umido, a giudicare dalle condizioni in cui è ridotta – a ritenere “cazzone” un termine tecnico per definire un lavativo buono a nulla. Ma voi?)

E comunque, se mi è concesso, a me uno che urla “testa di cazzo!” mi sa sempre un po’ di Goldrake.

Prenderlo nel – scrivere questo post con due colleghi che improvvisamente, da dieci minuti, hanno eletto domicilio alle mie spalle, e ivi stazionano con scuse poco plausibili cercando di leggermi il monitor per capire con chi ce l’ho sta diventando un esercizio acrobatico, ve lo dico.

Comunque c’è a chi piace.

(prenderlo nel bagagliaio, non mummificarsi dietro le colleghe)

Voglio dire, non è una cosa universalmente riconosciuta come spiacevole. Non è come dire:

“La classe politica bada solo ai propri privilegi, tanto poi chi si prende gli elettrodi sui capezz

“…tanto poi chi si prende il mattarello nel nas

“…tanto poi chi si prende la mattonata sui denti siamo sempre noi”.

(feticisti. quando becchi quello puntiglioso è la fine)

A rigor di logica è piuttosto come dire:

“Le tasse aumentano, l’evasione pure, e alla fine chi mangia le ostriche siamo sempre noi”.

C’è gente a cui piace, altrochè.

(questo post è dedicato alla memoria della mia amica Francesca, che in gioventù, avendole qualcuno fatto notare che il linguaggio portuense mal si addiceva ad una signorina ammodo, elaborò un sistema molto personale per venirne fuori: ogni volta che il demone del turpiloquio la induceva in tentazione si metteva a strillare “Vernellone!”, convincendo così i turisti affollanti Cala Sinzias di aver prenotato le vacanze nell’unica spiaggia dove i vu cumpra’ vendevano ammorbidente)

[KME – postumi di produzione]

Apro gli occhi lentamente con una luce morbida e soffusa che filtra dal terrazzo.

Invece dei soliti pterodattili, odo cinguettare le allodole.

L’aria è tiepida e profumata di fine estate.

Il tè è finito, ma poco importa.

Mi stiracchio languida a letto, Grogu si precipita a inondarmi di coccole.

Assaporo il primo istante di quiete da una settimana a questa parte.

 

Neanche ve lo sto a dire, vero?

Il primo santo costa mille lire, il secondo cento, il terzo dolore e spavento. Nessuno ha spiegato ad Amaranta che il KME è finito, siamo in post-produzione, non abbiamo più tempi serrati, meteoriti che ci piovono in testa, gente da calare in tutta fretta dai piani alti di un palazzo squarciato appesa a sedie da ufficio con l’angoscia che la bocchetta dell’antincendio si strappi da un secondo all’altr…

Signor Da Soli.

Esca da questo corpo.

E tu, Ronzinante amarantaceo, fatti passare il mal di batteria a singhiozzo una volta per tutte, o quant’è vero Iddio ti sostituisco con una Prinz.

 

Quindi siamo a bordo dell’autobus, io e una velata incazzatura, che recitiamo i misteri dolorosi, quando dal finestrino scorgiamo lei.

Shirley Temple. Riccioli d’oro, vestitino verde pieno di ruches e volant, sandaletti bianchi e dorati. Come si accorge dell’autobus in arrivo, sgrana gli occhioni e comincia a correre verso la fermata cercando di non perdere la dentiera e le vene varicose per strada. L’operazione non è semplice, ma lei è agguerritissima. Quell’autobus le serve.

L’autista la vede. E si ricorda le prese in giro dei compagni di scuola, che per anni sono andati avanti a chiamarlo “zoccoletto olandese”, solo perché, checcazzo, adesso uno, in preda al fervore, non può leggere male il titolo sulla videocassetta che propone di vedere tutti insieme con grandi scorte di fazzoletti di carta?

Rallenta.

Arriva alla fermata, la supera e si ferma dieci metri più avanti, tritando una Smart inspiegabilmente parcheggiata a modino.

Shirley si è trasformata in Pina che rincorre il camion dei tedeschi che le porta via Francesco.

L’ha quasi raggiunto.

Arriva a sfiorarlo.

E il nazista riparte.

Per poi fermarsi al semaforo rosso, cinquanta metri più avanti, e restare arroccato sul suo sedile, insensibile alle suppliche di aprire le porte per far salire i sei palmi di lingua affannata con Shirley annessa, a rispondere “non si apre fuori dalla fermata” con quel tono toccante che solo le sbarre automatiche dei parcheggi hanno.

Poteva bastare.

Ça suffit, usava dire la mia prof. di francese quando il massacro sistematico di coniugazioni verbali cominciava a richiamare l’attenzione del tribunale dell’Aja.

Ma a noi non suffit mai.

Quattro metri prima della mia fermata. Incrocio. Nel cui bel mezzo si pianta, in diretta, un’apixedda bianca furgonata, di proprietà del comune, adibita al trasporto di mercanzie varie.

Che non ci sia lo spazio perché l’autobus le giri intorno è palese a tutti, cassonetti e cacche di cane sui marciapiedi inclusi, ma non all’autista del bus medesimo.

Il quale, spavaldo, inizia la manovra e si ferma solo quando l’autista dell’apixedda comincia a decantare a gran voce le tecniche di soddisfazione del cliente che hanno reso famosa sua madre nella zona fin dai tempi degli sbarchi dei mercenari punici.

Quello che si presenta agli occhi delle decine di nullafacenti immediatamente accorsi sul posto è un perfetto stallo alla messicana che ha trasformato l’incrocio di fronte al comune di Urano in quello di Shibuya: apixedda guasta in mezzo all’incrocio, con autista murato dentro dalla fiancata dell’autobus; autobus incastrato tra l’apixedda e le macchine parcheggiate sull’altro lato; un altro autobus che è giunto alle spalle del primo a chiudere ogni via di fuga. Tutti che strillano come se un pazzo avesse telefonato per dire che il primo che scende sotto i 110 decibel esplode.

Quattro metri dalla mia fermata.

Mi schiarisco la voce.

Così, per sport, perché col casino che fanno questi insultandosi figurati se.

Busso con energia sul pannello dell’autista e, mediante labiale, gli chiedo di farmi scendere.

Lui, Mister Tolleranza Zero 2013, mi risponde picche e racconta agli astanti di quella volta che dal più recondito pertugio del tipo dell’apixedda fu estratto un busto di Beethoven in grandezza naturale.

Sull’autobus si grida al sequestro. Una signora sviene. Le fanno annusare un’ascella, rinviene e inizia a dare del monellaccio all’autista, intimandogli di aprire le porte pena la negazione del pane e nutella che spetta per diritto di nascita a qualunque merendero italiano.

L’autista, minimalista, se ne fotte.

Improvvisamente, nel mio orecchio destro si materializza una voce. Profonda, virile.

“Continua a distrarlo”.

Soffoco un gemito, mi mordo un labbro e non mi volto. Voglio ricordarti così, come uno sconosciuto che mi sussurra cose turpi standomi alle spalle.

Se non fossi immune al fascino della cadenza dell’hinterland atlantidcitico, avrei già le mutande in mano.

Le sue.

Invece sfogo la tensione erotica inveendo contro l’autista e minacciando di chiamare i carabinieri se non ci fa scendere subito, seguita prontamente dal resto della popolazione femminile dell’autobus. Tolleranza Zero vacilla sotto l’assedio del pollaio di Babele, poi invoca Franco Baresi e torna a resistere: fuori dalla fermata, nessuna pietà.

Quand’ecco che dalle porte centrali si leva un sibilo decompressorio: Voce del mistero, approfittando della cagnara, ha trovato e sapientemente usato a nostro vantaggio la leva per l’apertura di emergenza. Scendiamo tutti, anche quelli che non dovevano, a sfregio, solo per il gusto di battere il cinque al Vialli di Maracalagonis e alzare la coppa in faccia all’autista.

Tolleranza Zero, Restodelmondo 1, a voi studio.

[brace yourselves]

Suore.

Tz.

Prinz verdi.

Pfui!

Gatti neri che rompono specchi passando sotto scale.

Ma per cortesia.

Signore, signori, è con viva e vibrante soddisfazione che vi informo che l’unica, incontrovertibile, inossidabile espressione della sfiga verace è racchiusa in tre parole.

Che non sono “Sole, cuore, amore”.

Neanche “Cielo, mio marito!”.

E nemmeno “Posso spiegare, agente”.

Nossignori. La triade maledetta, il triangolo che nessuno si preoccupa di considerare, è composta da tre apparentemente inoffensivi – e quindi infidi – lemmi:

Stasera.

Torno.

Presto.

Possibilmente pronunciati socchiudendo le palpebre, sollevando le sopracciglia, con un leggero sbuffo di sufficienza beota nei confronti di qualunque intoppo possa presentarsi e di quei poveracci che non sono capaci di rispedirli serenamente al mittente col timbro “domani”.

Gli intoppi sono permalosi. E non sono mai cani sciolti. Nossignori. Gli intoppi sono una maledetta lobby.

Agiscono in maniera subdola, a valanga. Hanno pure la faccia tosta di seminare indizi, che una parte del vostro cervello coglie come un’immagine subliminale, mentre il resto sbatte, pesta e produce ogni tipo di rumore molesto proprio sotto la crepa nel ghiaccio.

Ore 17.58: – No, ma figurati, certo che vengo a darti una mano quando esco dal lavoro, però tieni conto che al massimo alle otto devo andar via che ho ospiti a casa.

Ore 18.58: – Sì, lo so, non era previsto che passassi qui ad affogare nelle scartoffie invece di rilassarmi sul terrazzo con una birra gelata e in ottima compagnia, ma tanto resto poco, al massimo alle otto vado via che ho gente a cena.

Ore 19.58: – E’ un vero peccato interrompere qui questo lavoro stimolanterrimo che arriva dopo sole altre otto ore di lavoro delirante, credimi, resterei, ma purtroppo devo andar via, ho ospiti a cena.

Ore 20.25: – Ehi, mi hai beccato per un soffio, sto scappando, ho gente a cena e sono in ritardo.

Ore 20.45: – Ma scherzi, ti ringrazio per aver voluto condividere con me il tuo tempo prezioso e soprattutto il racconto dei malanni della tua famiglia dai tempi dei primi insediamenti punici, starei ad ascoltarti per ore, ma purtroppo devo lasciarti perché a casa ho degli ospiti che si staranno nutrendo di bacche e radici, visto che sono ancora qui e non ho ancora fatto la spesa.

Ore 20.55: – Ma porca di quella pala, ci credo che ti ha lasciato per un nazionale di pallavolo cubano se non riesci manco a sentire ‘sto cazzo di verbo senza metterti a piangere, razza di lagna opprimente che non vaporizzo solo perché sono una persona sensibile e dotata di molto tatto, e ora schiodati e lascia che – E LO SO CHE HO DETTO DI NUOVO “LASCIA”, MA SE RIATTACCHI A FRIGNARE TI CHIUDO LE DITA NEL PORTONE, QUANTEVVEROIDDIO! – mi catapulti a casa, dove troverò dei graziosi manufatti a forma di ospiti mummificati e coperti di muffa a forza di aspettarmi.

Cinque minuti.

Mi proietto verso il supermercato più vicino, di cui posso fugacemente ammirare una serranda chiusa che nemmeno Santa Barbara dei Fulmini, sia pur invocata a gran voce insieme ad altre amiche in un rosario fiorito, riesce a perforare.

Tre minuti.

A rotta di collo verso l’ultima speranza. Nello slancio, mi chiudo un lembo della camicia nella catena e faccio il mio ingresso trascinandomi appresso Glorià e il bidone dei rifiuti a cui l’avevo legata. I Tamburi del Bronx chiamano il mio agente e ci offrono bilirubiniliardi perché diventi la loro coreografa. Ma non ho tempo. Frantumo il record olimpico dei 5000 siepi scavalcando cumuli di patate, pile di scottex e transenne di pelati, e alla fine mi spalmo contro il banco dei freschi, che era poi la destinazione finale inserita nel mio gps interno.

Non faccio in tempo a emettere un lamento che alle mie spalle si manifesta Lea Van Cleef vestita da commessa. Sprezzante del pericolo, la ignoro e mi dedico alla mia missione.

E mi rendo conto di avere un problema.

Un grosso problema.

Un enorme problema.

–          Se ha bisogno di qualcosa la prenda in fretta che stiamo chiudendo.

Resisto alla tentazione di risponderle che no, sono entrata di corsa coi barattoli attaccati alle chiappe per capire se posso andarle bene come mezzo di trasporto il giorno delle sue nozze, mica perché mi serve qualcosa.

Resisto perché ho un problema.

–          Temo di avere un problema.

Mi guarda con odio comprensibilissimo. Se non avessi ospiti che mi aspettano in una casa distante cinquanta minuti in bici da qui, e a cui cortesia vorrebbe che si offrisse del cibo, mi odierei anch’io.

–          Mi dica.

Professionale, essenziale, pratica.

Spero non pratica di arti marziali, visto quello che sto per dire.

–          Devo comprare una braciola.

Ho la classica faccia da “terra inghiottimi”. Lei ha la classica faccia da “terra, inghiottila ma prima masticala bene. Se poi volessi sputarla, capirei”.

–          E?

Prendo fiato e applico il Metodo Sider per Farsi Coraggio.

–          Sono vegetariana. Non le so riconoscere.

Mi guarda, indecisa se sbattermi fuori a calci nel culo o strappare di mano lo scopettone con cui il suo collega sta pulendo il pavimento e legnarmi prima. Forse durante.

–          Le sembra l’ora di venire a prendere per il… a scherzare?

–          Glielo giuro.

Mi tolgo il cappello, lo sistemo davanti al muso, abbasso le orecchie e sgrano gli occhioni.

Mi guarda ancora, indecisa se firmare una petizione per la riapertura dei manicomi o cominciare a chiamare il suo avvocato. Alla fine decide che sono una forma di vita aliena ma non pericolosa. Forse. Senza perdermi d’occhio un istante, si avvicina al banco frigo della macelleria, sposta la copertura termica, afferra una malloppa sanguinolenta e fa per porgermela. Istintivamente mi ritraggo. Lei capisce, rimette a posto la malloppa, ne prende una meno grondante, la infila in un sacchetto e me la riporge. La prendo, ringrazio inchinandomi indietreggiando con la grazia di una geisha di Villaputzu, e pedalo verso casa nella notte pensando:

a)      Cristo, ho comprato un pezzo di carne;

b)      l’Apocalisse è vicina;

c)       chissà se la commessa chiuderà la giornata con un “Nonna Isix, Reparto Vai Contro I Mostri Lanciati da Vegan, ore 21.05”

 

[intervallo (in vietnam it was forty)]

Soldati: – 40 all’alba.

Quaranta dì, quaranta nott, 

sbattuu de su, sbattuu de giò.

Che la quarantena abbia inizio: la produzione del KME passa dal livello “avimm’ pazziat'” a Defcon 2 stabile.
Potete immaginarvi il clima, e anche il climax. Las Vegas ci fa un sontuoso pippone.

In più, alcuni di voi ben ricordano la mia naturale inclinazione al fraintendimento di frasi apparentemente innocenti con conseguenze che si potrebbero definire improvvide, se l’aggettivo non fosse totalmente sottostimato. Cose che mi hanno spinto ad osservare con attenzione un antico moroso per smentire la sua teoria che somigliasse a un ratto morto*, o a calcolare le vie di fuga dopo essermi convinta di aver passato una notte di fuoco con uno psicopatico che appena sveglio chiede di far colazione con un’aringa salata**.

Aggiungete una cappa d’afa da stendere un rinoceronte. Non solo ti si felpa la laringe a parlare al telefono, ma ti si moquettano i discorsi pure via mail. L’ultimo dei neuroni sta per uscire sparando all’impazzata pur di farsi crivellare a sua volta in modo che dai buchi dei proiettili spiri un po’ di corrente.

Perciò capite bene che sentire il collega chiedere disponibilità al b&b “Sado mucchetta***” non suoni strano più di tanto.

E’ il rutilante mondo dello showbiz, baby, siamo abituati a ben altro.

Completezza dell’informazione:

*

N (nel bel mezzo di una conversazione a tema viaggi e abilità linguistiche): – Comunque somiglio a un ratto morto.

O (controllando che sia effettivamente sera e il sole non picchi così forte): – Mah, non mi sembra.

N (come solo chi è certo del suo può insistere): – Ma no, è vero, somiglio a un ratto morto, ammettilo!

O (circumnavigandolo): – Ti dico, non mi pare proprio.

N (controllando che sia effettivamente sera e il sole non picchi così forte): – Ma cosa fai? Non puoi stare ferma mentre faccio un discorso serio?

O (a un passo dal chiedere se sia una tara ereditaria): – Seriamente, mi sembra che esageri.

N (a un passo dall’ira funesta): – Vabbè, non sarò al tuo livello, ma nel mio piccolo davvero somiglio a un ratto morto!

O (improvvisamente interessata): – Cosa vuol dire “non sarò al tuo livello”? Adesso somiglio a un ratto morto anch’io?

N (onestissimo): – Eh, ma non prendertela! Comunque no, tu sei così da quando ti conosco.

O (improvvisamente inerme davanti alla cruda realtà): – Ah, ma non me la prendo mica. Il mio ragazzo trova che io somigli a un ratto morto, sono lusingata. Me ne vado.

N (nella sua migliore interpretazione di Arnold): – Che cavolo stai dicendo, Sider?

O (la cui spiccata sensibilità si contrappone al gretto materialismo maschilista): – Che me ne vado.

N (riavvolgibobinico): – No, prima. Topo morto..?

O (moralsottotacchica): – Ratto. Morto. Quello a cui dici che entrambi somigliamo. Vado.

N (neuroshakerato): – Ma sei fuori? E quando l’avrei detto?!

O (candicamerabdomante): – Ma è mezz’ora che lo ripeti! Somiglio a un ratto morto, somiglio a un ratto morto!

N (esterrefatto): – In inglese!

O (pavloviana): – I look like a dead rat.

N (centodiciottico): – Ma no, dicevo, in inglese SON-MIGLIORATO-MOLTO!

O (malkoviciana): – Uh.

**

Alassio, tardissima mattinata di prima estate che lambisce concupiscente l’ora di pranzo. Luce che filtra dalle persiane accostate. Risveglio pigro e sornione, con l’aria fintomodesta di quelli che han dato spettacolo tutta la notte fra gli applausi dell’intera Riviera di Ponente.

K (baciandole una spalla): – Buongiorno.

O (voltandosi languida): – Buongiorno. Dormito bene?

K (affondandole la faccia nell’incavo del collo): – Mmh. E sto morendo di fame. Mangerei volentieri un’aringa salata.

O (raggelata): – Uh. Oh. Mi sa che devo andare.

K (perplesso): – Ho detto qualcosa che non va?

O (fintoindifferente): – No no. Figurati. Le aringhe salate, eh, ma scherzi, le aringhe salate sono la mia, uh, la mia passione, a colazione, poi, le aringhe salate, è fantastico, ho appena passato la notte con un pazzo che chiede aringhe salate appena sveglio, chissà dove tiene le teste delle donne precedenti, hahaha, ti spiace se mi calo un attimo dalla grondaia e fuggo via così come sono?

K (visibilmente sollevato): – Hahahaha, mi ero scordato che hai questa fantasia assurda che ti fa sembrare un po’, ma giusto un po’ disturbata, hahahaha, sei fantastica, voglio passare il resto dei miei giorni con te, a proposito, tu nella RICCA INSALATA cosa ci vuoi?

***

C (impegnato in altra conversazione a mezzo metro da me): – …chiamo al Sado Mucchetta e vedo, se c’è posto lì è più comodo e costa anche meno.

O (improvvisamente interessata): – Sado Mucchetta?

C (candido): – Sì, è nuovo. Lo conosci?

O (immaginifica): – Mai sentito. Muccassassina ha aperto una branca “hotel de charme”?

C (ignaro delle brutture del mondo): – Eh? Non lo so, ho solo paura che sia un pacco, il proprietario mi sembra un po’ rozzo.

O (ecumenica): – Non è il mio genere, ma c’è a chi piace così. Per curiosità, chi ci stiamo mandando?

C (innocente): – I Cans of piss. Ma poi mi chiedo, ok SA DOMU che vuol dire “la casa”, ma CHETA cosa mi sta a significare?

14.

– Allora la cena di Ferragosto si fa da noi, eh?

– Ok. Porto il riso nero salmone e avocado.

– NO!! Cioè, no, volevo dire, non serve che ti dist…

– Oppure la pasta al limone e olive.

– EEK! No, no aspetta, davvero, ci sarà tant…

– Ma a Fede piace.

– Fede quando ha saputo che portavi qualcosa ha deciso di passare Ferragosto a Ulan Bator.

– Ma se l’ho sentita un’ora fa!

– Un last minute. Un’emergenza. Un summit. Una sostituzione per maternità. E’ dovuta partire all’improvviso.

– Uhm. Quindi cosa porto?

– Piatti di carta.

– E..?

– Birre.

 

Capite bene che non sarà certo un velato messaggio a impedirmi di lasciare che i miei amici sprofondino nella barbarie gastronomica.

Giungo a casa manovrando Glorià come fosse un hobie cat, e sì che ho preso solo lo stretto indispensabile per far fronte ai miei due inaspettati giorni di ferie estive, approfittando dei quali indulgerò a depurare il mio spirito con Tai Chi all’alba e tisane alla sera. I cinque chili di M&M’s con arachidi, gli otto sacchi di nachos, i cetrioli, le due piante di lime, la cassa di acqua tonica e lo yogurt magro sono solo di scorta nel caso di un abbassamento di pressione.

E poi ho i maledetti piatti di carta, ovviamente.

Le birre.

E uova. Che insieme alle patate che per fortuna avevo già in casa, altrimenti avrei solo potuto trasportarle producendomi in un numero di alta giocoleria di cui non volete sapere niente,  andranno a comporre la più saporita, irresistibile, squisita tortilla che mai sia stata gustata in questo emisfero. Insalata di riso, tz! Pasta fredda, pfui! Tortilla di patate: l’unica cosa che può rendere indimenticabile una cena di Ferragosto degna di tale nome, la più profonda dimostrazione d’affetto che si possa offrire ai propri amici.

Un po’ come una frittata a casa Lorenzini.

 

Trascino una Glorià particolarmente recalcitrante su per il mausoleo che separa il cancello di Villa Balorda da un enfisema.

Dai, Glorià, su, che devo salire a fare la tortilla mentre stormi di cherubini gorgheggiano “magno cum gaudio!”.

No, Glorià, non è la stessa cosa restare a prepararla qui davanti ai contatori.

Glorià, non fare così, pensa ai bambini che muoiono di fame a Quartucciu.

Ma no le crocchette per gatti, Glorià, sono amici, vergognati!

Glorià, perdincibacco, basta coi capricci, sali questa diamine di rampa del piffero ché non possiamo star qui tutta la notte!

Ora, ho chetato con grazia e fermezza nerboruti portieri pronti ad avventarmisi alla gola su calci di rigore inesistenti e regolarmente assegnati. Ho sedato con una parola gagliardi attaccanti in preda a legittimo istinto omicida su calci di rigore plausibilissimi et eziandio negati. Ho pietrificato con lo sguardo e un cenno del mento allenatori più abili nell’uso del congiuntivo trapassato che nel modulo a zona, e ciononostante incapacitabili del non essere stati convocati ad allenare la Seleção. Eppure il mio ascendente su un inutile, testardo ammasso di ferraglia rugginosa è pari a zero: Glorià, candidata all’Oscar come Miglior Mulo Imbizzarrito Protagonista, si pianta, decide che il nostro futuro è nel rutilante mondo degli stunt e, con una manovra da cintura nera di carognaggine, si rovescia sull’asse longitudinale, qualunque esso sia, in un tripudio di bottiglie di birra molotov e uova à la kamikaze, mentre in sottofondo suona “Cool bikes don’t look at explosions”.

Lurida esibizionista svergognata, non vedrai il tuo nome più grande del mio sul manifesto del Circo Togni. Il mio doppio salto mortale indietro con triplo rimbalzo sul gradino, touchdown di menisco e affrittellamento carpiato finale fa scattare l’ovazione nel pubblico composto essenzialmente da lucertole e api. Addirittura una coccinella si avvicina per stringermi cinque o sei mani, sottolineando che si vede che ho un passato da ginnasta.

“Passato” è la parola. Nel senso che quando mi rialzo sembra che mi sia passato sopra un camion della nettezza urbana.

Il rubinetto del giardino, a pochi centimetri dalla mia schiena, si ritrae mormorando “non farmi del male”.

L’unico suono che turba il silenzio è lo sgocciolio dai cocci e dai gusci in frantumi. E l’aria attraverso i raggi di una ruota che continua a girare rivolta al cielo.

 

Glorià ed io ci guardiamo sbieche e doloranti come Skip e Jonathan nella scena finale di “Class”.

I miei amici adorati smettono di piantare spilloni in una bambolina di stracci e paglia aggrovigliata.

 

Nessuno, vi giuro, nessuno ancora sospetta che nel mio corpo si sia avviata una terrificante mutazione genetica.

 

 

[i-i-in vietnam it was fourteen]

[light my fire (in your…nose)]

Ah, la gioventù. Quel periodo meraviglioso in cui la curiosità è un dovere civile, la sperimentazione un obbligo morale e il criterio è come la minima di Campobasso, non pervenuto. Qualunque nefandezza viene non solo concessa, ma incoraggiata: iscriversi al fan club dei Curiosity killed the cat? Fantastico!  Bere vino con la pepsi? Una delizia. Fare sesso con un astemio? Uhm. Ma neanche il Tavernello? Vabbè, intanto vediamo quel grosso cavatappi che hai in tasca.

Finisci per ritrovarti in situazioni che a ripensarci adesso è tutto un raccapriccio, con sguardi allibiti e coro polifonico di “noooooo!” e “ma che, davèro?” dei tuoi amici (ricordarsi di darsi ultima quando si gioca a “adesso ognuno racconta qualcosa di vergognoso che ha fatto”, sia mai che un meteorite intelligente centri la Terra prima che arrivi il proprio turno).

Con l’età matura, si sa, si diventa più selettivi. E la memoria moderna fa in fretta a rimuovere certi ricordi, <delete file>, click, fatto. Però, dicono quelli bravi, non si possono cancellare del tutto, la traccia resta. E rischia di saltar fuori quando meno te l’aspetti.

Tutto questo ignobile panegirico per dire che:

ebbene sì, da ragazzina ho letto “Uccelli di rovo”.

I lettori del tuo blog YouCanCallMeOutsider sono appena passati da 15.975 a 12.

 

Oh, insomma. Ero molto giovane, e Youporn non esisteva. Una si doveva arrangiare per informarsi, anche se l’idea dei miei di delegare a “L’enciclopedia della ragazza ammodino” l’infame compito della mia educazione  si è rivelata vincente e tutti i dubbi tipici di un’adolescenza irrequieta (“ma si dice vàgina o vagìna?”) hanno trovato risposta.

A parte quel piccolo momento di confusione sul fatto che l’essere eunuco fosse una condizione essenziale per ambire a una carriera diplomatica di spicco, certo.

(la mia preferita era la sezione “Galateo e buone maniere”. Mi è stata utilissima, a posteriori. Posso darmi a pratiche turpi con ministri, segretari di stato, eccellenze, signori si nasce, presidi, presidenti e teste coronate varie senza che nessuno si lamenti del cerimoniale)

In ogni caso, la cosa che mi è rimasta più impressa di tutto il libro è la morte di Chissàchi nell’incendio. Una descrizione terribile, in cui veniva spiegato come il fuoco divori i corpi dell’esterno all’interno, così che gli organi vitali sono gli ultimi a perdere la sensibilità, e una persona – ma anche un animale – resta consapevole fino alla fine della cosa atroce che gli sta succedendo.

Ed era a questo che pensavo nelle ultime trentasei ore. Ho smesso non troppo tempo fa di aver paura del fuoco. Elemento affascinante, certo, ipnotico, sensuale, nelle circostanze adatte. Stare vicino al fuoco con qualcuno che sa maneggiarlo è un segno di grande fiducia, per me, significa che sento di potermi mettere nelle sue mani, in senso più e meno figurato. Da parte mia, è solo da qualche anno che utilizzo fiammiferi e accendini a rotella con nonchalance: prima, solo quelli a pulsante e accendigas. Addirittura un sistema ingegnosissimo di pinze e fiammiferi per le situazioni estreme. Qualche secolo fa mica ti deferivano alla procura sportiva, per eresia.

In caso d’incendio non rompo il vetro: rompo tanto i coglioni. Li rompo prima, quando sono incommensurabilmente pedante ogni volta che colgo qualcuno in procinto di buttar via una cicca accesa, specie se da una macchina in corsa, e li rompo dopo, quando m’incazzo a vedere la notizia liquidata in poche righe, dopo il Milan, dopo il papa che starnutisce, dopo i coleotteri che ballano il tango, dopo la ricetta della panzanella al nero di seppia e fiori di campo. Nessun approfondimento, nessuna presa di posizione ferma (ad eccezione di quella di Michele Piras), nessuna spiegazione di cosa significhi in termini pratici quel dato arido relativo a un numero spaventoso di ettari bruciati. Neanche una promessa ipocrita di educazione (perdonate la parolaccia) antincendio, di potenziamento dei sistemi di vigilanza e di pronto intervento. Tanto ci sono i volontari, pazienza se poi i volontari hanno – appunto – tanta buona volontà e nessuna formazione e rischiano di morire soffocati dal fumo. Perché l’incendio visto in tv non rende. Non lo senti il fumo che ti toglie il fiato, ti stordisce e ti rende incapace di pensare, non ti senti liquefare come cera, non senti la puzza dei tuoi peli incendiati, non senti l’acrilico e il poliestere dei vestiti che si fondono con la tua carne, non vedi le tue cose più care scomparire irrimediabilmente, perché è questo che fa il fuoco, non rende nulla in cui riconoscere le cose che amavi, solo pugni di cenere.

È il solito sistema di gestione delle emergenze in questo paese. Prima si creano le condizioni per il disastro, e poi si mandano due righe di comunicato stampa, dieci secondi e avanti con la prossima arma di distrazione di massa, quelli che hanno da ridire si stancheranno, e poi tanto non contano un cazzo.

E ora scusate ma ho l’F35 parcheggiato in doppia fila.