Le tradizioni.
Oh, le tradizioni.
Che belle, le tradizioni.
Cosa saremmo mai, senza le tradizioni.
(ok, il concetto è chiaro, grazie)
C’è chi minaccia di diseredare i figli se, non importa in quale parte del mondo si trovino, non si riuniscono la sera del 24 dicembre a cantare “Oh Tannenbaum, oh Tannenbaum” e altri improbabili titoli di film di Wes (al netto di Dori Ghezzi) Anderson che gli svizzeri sono convinti siano canti di Natale (ciao Margrit, du bist immer meine Liebling).
Ci sono quelli per cui non è Ferragosto senza un bel paiolo rovente di polenta al gorgonzola gustato in terrazzo col sole a picco (80 gradi fuori, 80 gradi dentro, dice “il segreto è mantenere la temperatura costante, così dopo puoi fare subito il bagno”).
E poi ci sono quelli che vengono dimenticati nei posti.
Monferrato, novembre 2012.
Prendiamo possesso di Alba rossa, che non ha mai avuto nè mai avrà il nostro scalpo, riservando la camera più leziosa ai due maschi più etero, che da allora si chiamano Lentina e Puccibalda.
Per le tre del pomeriggio siamo tutti brilli.
Intorno alle quattro nessuno si aspettava fossimo così tanti, nè tantomeno che tutti, ma proprio tutti, avessimo un gemello omozigota. In questo stato è d’uopo mettersi in macchina e andare a raccattare gli ultimi viandanti alla stazione di Monferrato Centrale guidando per dossi, cunette e curve pericolose come si fosse al Mugello, ma in groppa a un dromedario ubriaco.
Verso le cinque, un noto avvocato della zona percuote verbalmente con violenza una vecchia. Entrambi confesseranno in seguito che la cosa costituiva il proprio desiderio erotico più inconfessabile da una vita.
Che ora s’è fatta? Ora di andare a cena, di modo che Ugo possa raccontare ai postumi di quella volta che per fortuna ad Ayala avevano tolto la scorta, altrimenti a quest’ora organizzeremmo un torneo di calcio a 5 alla sua memoria. Maremma Ayala, stacce.
Il gruppo si mobilita. Chi si preoccupa di scolare i bicchieri, chi di far sparire salsicce. Un’unica idiota tropicale sale in camera a prendersi un maglione pesante.
Riscende.
Fa per aprire la porta.
Nulla.
Riprova.
Rinulla.
Attraversa il salone, saluta la panca come se la vedesse per l’ultima volta, arriva alle altre scale, prova l’altra porta.
Saratoga IL silicone sigillante, l’hanno girato qui.
L’idiota tropicale guarda la porta.
Mastro di chiavi, non c’è mai quando serve.
www.groupon.com, cerca, corso online di 9 minuti per diventare Lady Porta.
Offerta scaduta.
Maledizione alla struttura mediterranea, poteva restar chiusa dentro Tamacoldi, che almeno sarebbe passata attraverso le sbarre delle finestre.
L’uscio è solido, nel Monferrato oh, ci tengono a queste cose. L’idiota tropicale valuta la possibilità di passare la notte a bestemmiare il santo protettore degli infissi con una spalla lussata, poi ci ripensa. Nel frattempo batte sulla porta e chiama, chiama forte gli amici, ma la sua voce ritmata dai tonfi si propaga liberamente per il parcheggio che, ad un esame superficiale, si direbbe deserto.
Ohibò.
Dopo un’analisi frenetica di qualunque apertura della casa, ivi comprese la canna fumaria, gli scarichi dei lavandiniwaterdoccebidet e i condotti dell’aria condizionata al grido di “grazie al cazzo, Bruce Willis!”, finalmente una porta si apre.
Su un panorama quieto, stellato, gelido.
Ad eccezione dell’idiota medesima, non una forma di vita nel raggio di chilometri.
Cazzo, pensa l’idiota medesima, va’ che bravi nel Monferrato, le catastrofi nucleari le fanno senza manco sporcare.
Si concede un ultimo tentativo prima di scomparire nell’oblio.
– Outina mia adorata, rugiada del mio trifoglio, stella del mio orizzonte, naso del mio cane da trifola, pronto!
– Ferrua, senti, una domanda oziosa. Vi siete mica dimenticati qualcosa?
– Noi? No (confabulare gioviale in sottofondo). Cosa ci dovremmo essere dimenticati?
Atlantide, vigilia di Natale 2013.
– Ma sì, dai, dobbiamo cenare a cinquecentro metri di distanza, non ha senso andare con due macchine.
– Ok, allora lascio la mia sotto casa tua e andiamo insieme.
– Perfetto, ti faccio uno squillo quando sto andando via, così ti fai trovare pronta, perchè mica voglio far tardi, ché domani sono a pranzo da.
Complice un virus miracoloso che impedirà a Cognata di avvicinarsi ai fornelli per tutte le feste, alle 21.47 il cenone di Natale a casa Cupiello è bello e finito con l’incredibile punteggio di zero killed. I due avvoltoi barellieri sbaraccano mestamente da bordo campo augurandosi che il produttore di antiemetici si riprenda indietro la pedana intonsa.
Tre persone mediamente sofferenti si ritirano al piano di sopra.
Tre persone decisamente brutte e cattive si rincorrono per il salotto innaffiandosi di champagne.
Non resta che fare orario fino alla mezzanotte.
Su Raiuno pregano. Telefoniamo al numero in sovrimpressione per ringraziarli del pensiero e informarli dello scampato pericolo. Bergoglio intona “Filho maravilha” e fa partire il trenino. Il presidente della Repubblica interrompe le trasmissioni per esprimere, a reti unificate, viva e vibriona soddisfazione. Mia madre – o meglio, The Lady Formerly Known As My Mother – lo minaccia con uno sformato antiuomo avanzato da Ferragosto e dichiarato non smaltibile, lui dà la colpa alle lenti bifocali, abbozza e sparisce.
Le undici.
Costruiamo palafitte a Parco della Vittoria spacciandole per resort di lusso, a turno ci indignamo quando qualcuno pesca l’indulto e tutti ci rifiutiamo di usarlo, una perchè politicamente pirla, gli altri due perchè tanto all’età loro più che i domiciliari non si beccano, dicono.
Mezzanotte.
Mio padre, per lanciare un segnale di distensione, fa gli auguri in pigiama.
Mezzanotte e dieci.
Tutti e due sbadigliano in maniera ostentata.
Mezzanotte e venti.
Ricordo loro che non son venuta con la mia macchina, ma è questione di minuti.
Mezzanotte e mezza.
Primo tentativo di trattenermi lì pur di chiudere la porta e andarsene a letto.
All’una meno un quarto chiamo quello che un tempo consideravo un amico affidabile. Segreteria telefonica.
Lascia stare che non sei capace, faccio io. Mio padre, nervosetto. Segreteria telefonica che non guarda in faccia a nessuno.
Colpa della taverna, affermo fiduciosa. In taverna non prende.
La signora che continuo, nonostante tutto, a chiamare mamma, la stessa che una volta mi tirò uno zoccolo preferendo vedere la sua primogenita – già allora avrei dovuto capire qualcosa – spiaccicata al muro come una zanzara piuttosto che sentirle dire “cretino” al fratellino, inizia garbatamente a dire la sua sulle taverne, su chi le costruisce, su chi le abita e chi le frequenta.
Papà chiama l’esorcista.
Secondo tentativo di trattenermi lì a dormire, vedi alla voce “stroncato sul nascere”.
Nel frattempo continuiamo a cercare di contattare in tutti i modi possibili quello che fino a quel momento era un vecchio amico di famiglia. Tranne la SWAT e i testimoni di Geova gli mandiamo di tutto.
All’una e cinque decido di avviarmi verso la taverna in questione e recuperare il mio passaggio. O più probabilmente di ritrovarmi intervistata da Studio Aperto in merito alla fuga di gas che ha sterminato una famiglia di 72 persone.
Mio padre cerca di trattenermi tirando in ballo i cecchini sovietici.
Lo guardo negli occhi: ormai sono grande, posso reggere le notizie più atroci. Gli chiedo quando è stata, ma mi deve dire la verità, l’ultima volta che ha mangiato qualcosa cucinato da Cognata. Domenica scorsa, risponde coprendosi gli occhi. C’erano anche i consuoceri, non c’era scampo.
All’una e diciannove della notte di Natale sono in mezzo alla strada senza neanche il conforto di una bufera di neve per rendere la scena più drammatica. E all’una e venti lo sventurato risponde.
– Oh, cazzo.
Segue indistinto farfugliamento di scuse, attutito, come se stesse parlando da sotto un piumone.
Come se.