[Norwegian pirl: la genesi]

« (…) il Nilo comincerà a pullulare di zebù; essi usciranno, ti entreranno in casa, nella camera dove dormi e sul tuo letto, nella casa dei tuoi ministri e tra il tuo popolo, nei tuoi forni e nelle tue madie. Contro di te e contro tutti i tuoi ministri usciranno gli zebù». Esodo, 7, 26.

Ecco.
Poi non dite che non vi avevo avvisato.

C’è un prima e c’è un dopo.
A volte c’è anche un prima che non può aspettare che arrivi il poi, ma questa è un’altra storia.
Nel prima c’è Morten Harket. A me non mi freghi, Morten, io l’ho capito appena ti ho visto che quello spazio fra i tuoi incisivi rimandava dritto dritto a Nada e al Sassofono blu. Le royalties per il nome dovete darle, taccagni, non fate finta di niente.
C’è Smilla, nel prima, e prima ancora Andersen. Ora, che la Danimarca vanti il più alto tasso di suicidi in Europa è un fatto, certo, il clima, ma pure tu, benedetto, la ragazzina assiderata e la madre che si cava gli occhi e li fa cadere nel pozzo, adesso tu dimmi se, ma favole un cazzo, Hans Christian, hai traumatizzato una generazione e qualcuno bisogna che te lo dica. The kingdom era Disneyland, in confronto.
Ci sono Maj Sjöwall e Per Wahlöö, nel prima, e Stieg Larsson, che gli dei mi perdonino, ma ci son pure quei momenti in cui una ragazza ha bisogno di qualcosa di grosso e pazienza se non regge la conversazione, dopo gli chiami un taxi e via.
C’è Erlend Øye col tutù e una notte in cui c’era qualcosa nell’aria, altroché se c’era, Fernando, anche se poi in sottofondo c’erano i Giardini di Mirò, e una squadra inusitatamente campione d’Europa e un’altra composta quasi esclusivamente da giocatori di nome Jensen che faceva ubriacare i cronisti. E un tale Sven Goran, come no. C’era del marcio e Vicky il vichingo, Villa Villacolle e i suoi abitanti, e un viaggio fantastico cominciato con la sottoscritta alla guida di un’Astra SW per 900 chilometri attraverso la Germania, di notte, con la radio bassissima per non svegliare i tre macachi che dormivano, uno dei quali si rivelò un compagno di viaggio talmente insopportabile che a saperlo prima l’avrei abbandonato in un’area di servizio alla mercé dei camionisti del Baden-Württemberg, e l’alba sul Baltico e una casa bellissima a Copenhagen, Legoland e Christiania, di cui ho più solo una foto appesa sul muro di fronte al mio letto, proprio dietro la porta. E Elsinore, e scoprire con immensa soddisfazione che l’irritantissima scena finale dell’Amleto di Zeffirelli, quella in cui Mel Gibson muore esattamente al centro della sala solo per urtare il mio senso estetico scaleno, non era stata girata lì, non potete capire il sollievo.

C’era un moroso norvegese che fece la spola per un po’ ai tempi in cui le low cost non erano ancora state inventate, da cui imparai come comunicare in maniera efficace la mia stima alla curva avversaria in uno stadio e altri fondamentali.
E poi, qualche anno dopo, ma sempre prima, c’era K (che per inciso non dà il nome all’omonima pagina, fosse ispirata a lui si chiamerebbe Generazione P) che leggeva Montanelli in roulotte a Nowhere e tutti e due scoprivamo che la pronuncia esatta dell’aggettivo è scandinàvo e non scandìnavo come avevamo sempre detto, tu guarda se dovevamo arrivare in Nuova Zelanda per scoprirlo, e sempre in Nuova Zelanda c’era Norwegian wood che era uno dei libri che mi avevano regalato da portare in viaggio, l’altro dei miei era “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, quelli di K non me li ricordo. Il kindle era ancora di là da venire.
E questo era grossomodo il mio rapporto con la Scandinavia in generale e con la Norvegia in particolare prima.

Poi è arrivato lui.

Un uomo alto 1,93, che non supera i 90 kg e che solo per certi traduttori di Piemme si può definire tarchiato. Ivan Zaytsev è alto 2,02 e ne pesa 100, per dire.
Lo so che in realtà dovrei dire “poi sono arrivati loro”, ma mica tutto quello che ha scritto Nesbø mi è piaciuto. Il cacciatore di teste va bene giusto quando hai finito di rileggere pure i vecchi Liala di mamma, perché non è nemmeno grosso.

Lui, invece.

Non che abbia mai avuto bisogno di grandi scuse per prender su uno spazzolino da denti e andare in giro per il mondo a far ridere del mio dentifricio da viaggio, però è vero che a volte capitano storie ambientate in posti che ti chiamano talmente forte che resistere è una battaglia persa. Poi parlo io, che ho quel famoso problema con le tentazioni.

Organizzare la missione Norvegia è stato particolare da più punti di vista: il primo viaggio superiore ai tre giorni che facevo di nuovo da sola dopo molti anni, con un budget reso ancora più ridicolo dal fatto che l’affitto di casa era tornato ad essere interamente a mio carico, mentre il mio stipendio era rimasto la miseria che era. Ma organizzarsi le vacanze senza doversi preoccupare dei soldi o delle condizioni meteo  è una roba noiosissima, disse la volpe all’uva. All’epoca ero ancora

– Una vendemmiatrice alta un metro e un portacenere pieno! – diranno i miei piccoli lettori balossi.

No, ragazzi, avete sbagliato: all’epoca ero ancora una lavoratrice del settore cultura e spettacolo. Una di quelli che non intasano le bacheche altrui lagnandosi di dover lavorare i festivi, non so se avete presente. Quelli che le ferie ce le hanno in periodi inconsulti: febbraio, novembre. Ottobre, nel caso specifico, giusto prima di quella stagione troppo esotica per noi creature tropicali. Perché ricordiamoci che stiamo sempre parlando di una che va in Norvegia forte dell’esperienza datale dall’aver visto L’era glaciale e la neve cadere tre volte in vita sua. Una che una settimana bianca non l’ha tuttora mai fatta, e non solo perché di bianco non possiede manco mezza mutanda. Una a cui ancora non avevano detto che parlava inglese con l’accento di Winterfell. Una che quando è salita in cima alla Jungfrau la cosa più intelligente che ha saputo fare è stata cadere di culo sul ghiaccio e che in Norvegia, ad ottobre, si è comunque portata il costume, che non si sa mai.

Quindi comincia tutto con lo squillo della terza sveglia, quella che ti segnala che se ti metti in macchina ORA perdi il volo solo di dieci minuti. Mostri d’imperio a Grogu le uscite di sicurezza dal tuo zaino, cacci dentro delle cose a caso tra quelle che stavi organizzando da tre giorni e che lei ha giustamente tirato fuori perché nessuno sano di mente andrebbe mai in Norvegia senza una gatta –  il che, perdendo per un attimo di vista la differenza risibile tra un topo e un alce, può anche essere vero – e, venti minuti, dopo una meteora ipertricotica in assetto da guerra entra a capofitto sull’ultimo CAG-BGY della notte un attimo prima che chiudano le porte.

Grogu dormirà benissimo nel sacco a pelo dimenticato sul letto, dopo averlo impastato per bene.

La meteora un filo meno, le madonne come isolante per dormire all’addiaccio in aeroporto, non sono un granché, ve lo dico.

E questo era il prologo.imgp1139

[e intanto jean reno non sbaglia un film]

Che poi, a Oslo non è che faccia poi tutto ‘sto freddo.

Ecco. Siate gentili, ritagliate questa frase seguendo le linee tratteggiate e abbiate l’accortezza di sbattermela in faccia da qui a due mesi, quando cercherò di uccidere un bue muschiato a mani nude per fregarmi i suoi mutandoni di lana che pungono.

Comunque.
Seriamente, ora non è che faccia freddo. È la lobby malefica delle parafarmacie aeroportuali che fa scempio del viaggiatore tropicale. Pagano fior di mazzette per tenere l’aria condizionata a una temperatura polare, ma tu non ci stai, non ti pieghi alle loro sordide logiche, tu, fiera vedetta della resistenza degli oppressi e dei vessati, non ti renderai complice di chi ruba ai poveri per dare ai ricchi.

E arrivi a casa cod le darici boquettate, bestebbiaddo la badre di tutti i vicks sidex.

Perché il vicks sinex è un animale subdolo. La sua indole malvagia lo porta a intralciare qualunque manovra per 360 giorni l’anno. Devi condire l’insalata? Sperona la bottiglia dell’olio e fa in modo di finire al suo posto sotto la tua mano tesa e distratta dallo spiegare che no, la cicuta non ce l’hai messa, stavolta. Cerchi a tastoni il collirio in quella nebulosa di Poppins che è la tua borsa? Troverai sempre e solo lui, e al sesto tentativo userai la borsa medesima per battere il record mondiale di getto del peso e ti terrai la ghiaia sulla cornea. E se in un momento di intimità particolarmente intima lui si lancia improvvisamente in una danza cambogiana della fertilità che, per suono e movenze, ricorda più un calcio di punizione tirato apposta per non dare un seguito alla progenie dei difensori in barriera, mentre tu scopri di essere stata scritturata a tua insaputa per il remake di un vecchio spot delle caramelle Polo, e tutti e due vi scoprite improvvisamente devoti di san Cunegondo abside, ecco, quella è la volta che si è sostituito al lubrificante.

Per tacere di quando ti capita di scambiarlo con l’angostura.
Che, come tutti sanno, non è un animale.
Intelligente.

Comunque.
Sta sempre, sempre, sempre, sempre in mezzo, il vicks sinex. Poi, appena ti serve, si volatilizza. E sì che in casa tua non ci sono infiniti posti dove una cosa può sparire. È l’unico modello al mondo di casa cassettopriva, tutto è a vista.

Il frigo.
– Mavattene, il frigo, quando la giri sulle iperboli sei davvero leziosa, Sider.

Leziosa, come no. Leziosa un par di palle. Chiedetelo alla Pollera, cosa c’è nel mio frigo. Tanto ci sono le stesse cose che ci ha trovato quando è stata qui l’ultima volta, tre mesi fa. Compresa la banana lasciataci da Tamacoldi, credo fosse aprile, ma lo sapremo con certezza dopo l’esame autoptico.
Della banana, non di Tamacoldi.
In ogni caso, nel frigo ci sono – appunto – le solite cose: yogurt, muschio, shampoo, la banana di Tamacoldi, ghiaccio, altro ghiaccio, una busta di piselli surgelati, uh, il cd della Badu, ecco dov’era finito, una bottiglia di gewürtztraminer, un preservativo nuovo, uno usato, burro, ghiaccio.
Il vicks sinex, cobe fosse la bidiba di Bolzado.
E a qued punto subettra la disperaziode. Perché lo sai che ti aspetta uda dotte idsodde e torbedtosa.

Quando sei disperato hai due possibilità:
a) comporre un brano memorabile
b) chiamare lei. La Depositaria Di Ogni Rimedio (Pazienza Se Ogni Tanto Si Confonde).
L’opzione c) è sempre valida, ma ansimare col naso otturato non dà la stessa soddisfazione.

– Petu’, ce l’hai un rimedio per stappare il daso?
– Il raffreddamento va scaldato. Zenzero come se piovesse, nei cibi e grattugiato in una tazza di acqua bollente. Lo annusi per 10 minuti e poi te lo bevi. Anche il wasabi è molto efficace per liberare il daso.
– Sicura, veh, Petu’? Non è che la finisco come la volta che avevo un appuntamento di lì a un’ora e ti ho chiesto un rimedio rapido per tirarmi su la faccia che mi cadeva a pezzi dopo una nottata in bianco e son rimasta venti minuti col muso spalmato di una roba che poi si è scoperto serviva per lucidare i candelabri d’argento?
– Vai tranquilla.

La gente furba, quando si sente dire “vai tranquilla”, scappa a gambe levate senza manco chiudere la chat.
La gente furba è brutta, antipatica e gli puzzano i piedi.

– Petunia, io ti voglio bene. Ricordati solo che credo a qualunque cosa. Sappi che se mi stai prendendo per il culo e mi mummifico la lingua col wasabi, gli spiriti dei pom…delle fellatio che non potrò più fare ti perseguiteranno in eterno.
– Tesoro, non ti prenderei mai per il culo. E men che meno mi metterei contro gli spiriti dei pom…delle fellatio.

(noi fiori dell’aristocrazia educati alla Royal St.Paul School. Le vostre tasse, umili mezzadri, non sono state spese invano)

Barra a dritta sul bidone dello zenzero.
D1, colpita e affondata. Il bidone si rivela per quello che è.
Tra i vari difetti che ho in dotazione, senza i quali non sarei altro che una noiosissima Paolo Lentini in gonnella, c’è quello di conservare tutto. Non lo faccio perché sotto sotto spero che la Pollera cambi specialità ed entri in clausura a Psichiatria (per i nuovi lettori di questo blog, la dottoressa Pollera è la mia veterinaria curante. Ed è afflitta da un morbo tremendo che la porta, per esempio, a dare di matto se, stendendo le mutande, non trova due mollette dello stesso colore. Immaginatevi il dramma della povera donna ogni volta che viene a trovarmi).
No. Lo faccio perché ci tengo ad essere l’idolo dei trovarobe.

– Sider, ho Scorsese che viene qui a girare fra mezz’ora e ha bisogno di un paio di stivali neri, 37 ½, con la zeppa, sfondati, ma solo quello destro. Gli ho giurato che ce li avevo, ma non è vero, ti prego, aiutami!

– Sider, mi serve uno scontrino in cui figuri la spesa media di qualcuno con un’alimentazione da disadattato per la copertina di “Se potessi avere 80 euro al mese”, ma non uno scontrino con gli euro, me ne serve uno vecchio, in sesterzi, guarda bene che ce l’hai.

– Sider, siamo a pari punti con la squadra delle Giovani Moffette nella caccia al tesoro parrocchiale, ci manca una gelatiera guasta e una figurina doppia di Odoacre Chierico per vincere, solo tu puoi salvarci!

Il giorno che a qualcuno di voi servirà un bidone di zenzero vuoto per l’allestimento di “Antigone speziata”, io sarò la vostra donna.
Nel frattempo, sodo solo uda cretida che dod respira.
Però una cretina che non butta niente.

Il frigo.
– Arifacce co’ ‘sto frigo, Sider, piantala, sei stucchevole.

A parte il fatto che non dovreste usare parole di cui non conoscete il significato per riempire le crepe nei vostri muri, nel mio frigo c’è la soluzione a tutto, anche al quesito della Susi.
Infatti.
Tre bustine di zenzero e due di wasabi accuratamente serbate dall’ultima cena giapponese da asporto. Mai più trovato un giapponese buono come a Iwo Jima. Apro, rovescio in una tazza: il presunto zenzero sembra più una buccia rimasta nel piatto di Hannibal Lecter. Controllo meglio le bustine: scritte in giapponese, l’unica cosa che capisco è “continua”.
Continuo.
Verso acqua bollente su qualcosa che spero non avesse impronte digitali, una volta, aggiungo il wasabi e mi concentro sull’inalazione. I due tappi di damigiana saldamente conficcati nelle narici non collaborano.
Un miagolio da fuori:
– Non per sapere i fatti tuoi, ma stai sodomizzando un rinoceronte mannaro che scuoia una foca o ti è andata a puttane la sintonia della radio?

Dod è coppa bia.
Vabbè che Petudia aveva detto dieci biduti.
Dopo cinque arriva un PLOM! dal telefono con sollecitazione di segni vitali. Avercene.
Accenno alla situazione in tre parole: naso tappato. Zenzero. Wasabi.
E.T. e Jean Reno decidono di darsi agli oppiacei.
La replica arriva inaspettata:
“Cioè hai infilato del wasabi nelle nari? Adesso? Posso avere una foto?”

Ohibò.
Ci sarà tempo per una serie di considerazioni sulle amicizie che ciascuno si merita. Ciò che mi si spalanca davanti è una voragine dubitativa:
Petunia. Fermi tutti. Petunia ha parlato genericamente di wasabi. Sono io che l’ho assimilato al protocollo zenzero e ne ho fatto un tutt’uno con l’acqua bollente.

ECCO PERCHE’ NON STAVA FUNZIONANDO!
Non avevo capito una cippa.
Strano.
Meno male che ci sono gli amici.
Amici veri.
Che mi vogliono bene.
Che mai e poi mai si prenderebbero gioco di una citrulla credulona che, pellizzara suo malgrado, allo stremo delle forze, col neurone che rantola “ipossia, ipossia canaglia”, le proverebbe tutte pur di tornare a respirare. Tutte.

Amici.
Il wasabi nel naso.
Brucia.

[un giorno questo dolore ti sarà utile]

Dice, motivi validi.

I motivi validi son solo tre: un fottiliardo di soldi, una partenza intercontinentale o Robert Downey Jr. nudo nel tuo letto che ti sussurra in un orecchio se per favore potete provare ancora la scena del rodeo, honey please.

Che tu pensi, guarda Robbe’, giusto perché sei tu e fra quattro ore c’hai l’aereo per Los Angeles e chissà quando ci rivediamo, altrimenti io a quest’ora di solito mi pregio di dormire il sonno del giusto.

E se mi svegliano, faccio in modo che dorma anche lo svegliante.

Per sempre.

 

Sì, perché di motivi validi non ce ne sono mica altri.

Son questi qui e basta.

In qualunque altro caso ci si ritrovi a svegliarsi all’alba, di domenica mattina, d’estate, bisogna essere ben consapevoli di essere degli incommensurabili pirla e star pronti ad assumersi la responsabilità di qualsivoglia conseguenza derivante.

Che poi non ho capito perché parlo così in generale.

Pirla Sider, molto lieta.

 

Domenica mattina. Estate. Maledettamente presto.

Il sole non è ancora sorto e mi son già guadagnata la copertina di Elle Decor.

Dice, le soluzioni architettoniche, la controsoffittatura, il vetrocemento.

Cazzate.

Vuoi abbellire la tua cucina aprendo un lucernaio nel soffitto?

Metti la caffettiera sul fuoco avendo cura di dimenticarti di riempirla d’acqua.

Dice, hai un talento.

No.

Il lucernaio nel soffitto è creatività, è scienza, è ricerca, è cura del dettaglio, ma non talento.

Alzarsi all’alba e riuscire comunque ad arrivare tardi all’appuntamento perché quando ti lavi inavvertitamente la faccia col dentifricio sciacquarsela porta via tempo, questo è talento.

 

Il sole non è ancora sorto e ho già fatto fuori un calendario, con particolare riferimento ai santi protettori della campagna, delle oasi faunistiche e delle escursioni.

Io la odio, la campagna.

Le escursioni, mi fanno ribrezzo.

Le oasi faunistiche, non passa giorno senza che firmi una petizione per asfaltarle.

Sono un animale metropolitano. Amo le città. Nelle città ci sono le case, e nelle case ci sono i letti.

Dove la domenica mattina si dorme, porcadiquellavacca.

 

Il sole non è ancora sorto e mi squilla il telefono.

– Ti pare il modo di rispondere?

– Perchè, mamma, cos’ho detto?

– Hai chiesto chi era con una parolaccia.

– Ma figurati, chffshhhferenza, khhhapito male, ho detto chibhhazzzfrrrrpurè.

– Uhm. Vabbè, era solo per chiederti se vieni alla festa di compleanno di tua nipote, oggi pomeriggio.

– Eh, te l’ho detto che non posso, ho partita.

– E io te l’ho detto che ho fatto un corso di internet?

Oh, cazzo.

– E, uhm, cos’hai imparato?

– A cercare le designazioni sul sito dei mondiali.

– Chhhfzzzzzccidenti, bwwhhhhalleria.

(creare pagina che spiega come a digitare “blog figlia” su Google esploda il computer, segna: urgentissimo)

 

Il sole è appena sorto e mi ritrovo a fissare dall’alto un manufatto antico e prezioso, una trina modellata dal vento e della salsedine, un merletto brunito dal tempo, un pizzo valenciennes di metallo creato dalle sapienti mazze dei mastri siderurghi, i cui segreti sono ormai perduti.

 

Dice, ma è una cazzo di scala arrugginita che cade a pezzi.

Bruti. Gente che non ha il minimo senso della poesia, della bellezza, dell’arte decadentista.

Eppoi dobbiamo solo ammirarla da qui, mica dobbiamo scender…

Noi non dobbiamo scend…

Vero che noi non…

MA E’ UNA CAZZO DI SCALA ARRUGGINITA CHE CADE A PEZZI!

C’è bisogno che scenda in dettagli sul seguito?

Lo ribadisco, Darwin non era mica un cretino.

Di undici esemplari di Escursionista Beotis, uno e uno solo riuscirà nell’intento di infilzarsi con l’ultimo spuntone arrugginito dell’ultimo residuo di quello che una volta era stato un gradino, e perpetuerà così la nobile specie di Homo Quod In Futurum Cum Mentula Hic Deambulatibus.

Porto a termine la maledetta escursione con l’eleganza discreta della comparsa su un set di Romero. Gli altri viandanti portano a tracolla una borraccia, io ho una cartucciera portamadonne. Ogni tanto ne lancio una.

Ognuno sarà ben libero di sentire nella propria testa le voci che preferisce. Le voci nella mia testa, stamattina, gridano a raffica “PULL!”.

– Aspetta, cosa sta riportando Spot, una pernice? 

– Sembra più un fenicottero. Ah, no, è una madonna.

– Nah, troppo legnosa per grigliarla. Meglio gli hamburger di cammello, lascia, Spot.

 

Due del pomeriggio. 54°C.

Suono alla porta della prima guardia medica utile.

Altro che “Amo il mio carabiniere”. Bisognerebbe aprire una pagina su Facebook intitolata “Amo la mia veterinaria”.

– Il taglio è profondo?

– Boh, non si capisce.

– Come sarebbe, non si capisce?

– Sarebbe che sanguina un sacco e ho paura di guardare.

– Ma il piede è ancora attaccato?

– Ti pare che me ne vada in giro saltellando con un piede in tasca?

– Che ne so, fai cose strane.

– Io.

– Vabbè, ancora con quella storia delle mollette.

– Detto niente. Men che meno mi sogno di fare commenti sulle persone che si rifiutano di stendere foss’anche una mutanda, se non hanno le mollette coordinat…

– Basta cianciare. INFERMIERAA!! KIT PER AMPUTAZIONE!

– Glauco, sta’ buono che me la fai schiattare d’infarto.

– E che problema c’è? Si prende un capriolo, gli si espianta il cardiocoso a mani nude e si sostituisce.

– A proposito di animali, per caso nei pressi della scala arrugginita trafficano vacche o maiali?

– No, solo pantegane e cani randagi.

– Allora l’antitetanica è meglio farla. Vai alla guardia medica.

– Un’iniezione?! Non se ne parla.

– INFERMIERAAA! SEGA STERNALE!

– Sì, alabarda spaziale, Glauco, il taglio è su un piede.

– Eh, ma ormai l’infezione avrà già raggiunto i centri vitali, ci resta poco temp…

– …usano un ago piccolo, vero? E me la fanno in anestesia totale, sì?

Comunque.

Il medico.

Massima stima, per carità.

Salvare vite, missione nobile, quello che volete.

Ma è un mestiere che non farei mai.

Spesso ci si ritrova a lavorare in condizioni estreme. Vi pare facile presidiare un ambulatorio fresco e silenzioso in un paesello deserto, assediati dal profumo di muggine arrosto che arriva dalla casa affianco e riduce le pareti del vostro stomaco a una poltiglia sbavante e priva di raziocinio?

(sì, lo so, sono una brutta persona. qualche anno fa ho avuto una discussione pacatissima con una conoscente che si era appena laureata in medicina e aveva iniziato a fare le guardie. lamentava di non riuscire ad arrivare a fine mese con soli 1600 euro. e lo faceva spalmandosi il muso di burrocacao marcato Chanel. ora, io sono una bruttissima persona, lo confermo e lo accendo, però sono pronta a rivedere le mie posizioni quando mi rendo conto di agire sulla base di un pregiudizio. non è vero che i cosmetici Chanel non valgono il prezzo esorbitante che costano. qualunque altro burrocacao infilato nel naso l’avrebbe portata a morte certa per asfissia, invece quello Chanel le ha solo risolto il dilemma “respiro o continuo a sparare cazzate?”. amici dei laboratoires Chanel, vi devo delle scuse)

 

La dottoressa di guardia non apre un dibattito sull’iniquità del trattamento retributivo. Non chiacchiera di cosmesi o di griffe. E nemmeno mi visita, impegnatissima com’è a tirar su col naso. Un compito gravoso, diononvoglia venga interrotto, le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Quando mi chiede dove ho la ferita, tiro su la caviglia per mostrarla. Lei sillaba “c-a-v-i-g-l-i-a” sul registro, poi resta a fissarla.

Io sempre con la gamba a mezz’aria. Oriella Dorella, sei ‘na peracottara.

Dopo cinque minuti di concentratissima osservazione diagnostica: sinistra.

Tutto da sola, senza neanche l’aiuto del bollino rosso e verde delle Kicker’s.

Quando azzardo a chiederle se l’antitetanica che mi sta prescrivendo è davvero necessaria, suggerendo che mi dia un’occhiata e magari mi medichi come si deve, digrigna i denti e si sbottona il camice.

Sotto ha una maglietta “Vivisector: no limits”.

Che poi, mi dico uscendo, se medicarsi con un impacco di paglia e sterco di bue andava bene per gli antichi, andrà bene anche per me.

O no?

 

Due e dieci del pomeriggio.

Temperatura: 59°C.

Scopro la differenza fra farmacia di turno e farmacia di turno 24 ore.

La farmacia di turno è quella che espone il cartello “Pensate di sentirvi male da qui alle 17? Cazzi vostra”.

La farmacia di turno 24 ore, invece, è quella che ti risponde dal citofono che ha finito il farmaco che ti serve.

 

Due e mezza del pomeriggio.

Temperatura effettiva: 69°C.

Temperatura percepita: 451°C.

Ultima fermata: pronto soccorso.

Tra sudore, polvere, ruggine, sangue, sterpi, cerotti e brandelli di anime di defunti altrui, sembro la bambolina voodoo di uno spaventapasseri. Capisco la difficoltà nel trovarmi una collocazione nel regno animale al fine di registrarmi.

– Nera…ah, no, aspetti, è solo zozza. Facciamo bianco sporco, razza caucasica, donn…uhm, vabbè, scrivo “mammifero”.

Capisco meno la bomba che Enola Triage mi sgancia in faccia senza preavviso.

– Antitetanica, eh? Se la vuole, sappia che si tratta di un derivato del sangue umano, quindi la fa a suo rischio e pericolo.

– Scusi?

– È come una trasfusione, potrebbe essere sangue infetto.

Mi affaccio fuori.

La targa sul muro conferma che mi trovo presso una struttura sanitaria ufficiale, non nella cucina di una mammana.

(a dirla tutta, secondo la targa, la stessa struttura sanitaria risulta intitolata a un santo, che è una cosa che trovo sempre inquietante. Ma è anche vero che siamo il paese la cui strategia per accedere agli ottavi di finale ai mondiali è “butta la palla e prega”)

-Allora, firma?

– Scusi, ma non potrei essere visitata prima? Magari neanche serve.

– Eh no, una volta che ha deciso, ha deciso.

– Cioè, me la fate per forza anche se non serve? Sia gentile, mi faccia parlare con un medico.

– Non si può, sono tutti impegnati.

La sala d’attesa del pronto soccorso è deserta, a parte due signore appisolate in un angolo. Fa troppo caldo anche per farsi male.

– Gli dica che c’è una paziente rompicoglioni che ha la tendenza a diventare rompicoglionissima.

Tempo venti secondi e sono dentro.

 

– Beh, è vero, l’immunovattelapeschina è un derivato del sangue umano, ma non è il caso di fare terrorismo. Siamo un ospedale, controlliamo tutto. Semplicemente, quel sangue potrebbe contenere un virus non ancora scoperto e lei se lo beccherebbe tutto.

– Fantastico. Alternative? Non so, la butto lì: visitarmi?

– Nicola, scopri la ferita della signora. Ah, ma è superficiale, io al posto suo non la farei.

– Quindi non serve che la faccia?

– Io mica ho detto questo. Deve decidere lei.

– Mi faccia capire, chi è il medico di noi due?

Il medico è quello che segue il mio sguardo andare dal vassoio dei bisturi alla sua coscia, cosa che lo porta finalmente a spiegarmi in dettaglio la vita e le opere del tetano, imprevisti e opportunità del vaccino, elementi di amministrazione delle aziende sanitarie e la ricetta segreta della sua bisnonna per il maiale al salmone.

– Se le faccio una medicazione come si deve, ci metto su anche una monografia di Jenner e le dò di resto due flaconi di benzodiazepine, mi promette che smette di fissare i bisturi?

Se prometto, poi mantengo.

Mentre Nicola dimostra a quelle sciacquette di MilanoVendeGarze come si fa una petite medication blanche, mi squilla ancora il telefono.

Ma stavolta non mi avrete.

Diamo un senso a questo calvario.

– Dottore, una cortesia. Potrebbe, uhm, enfatizzare un filo la medicazione?

– Vuol dire come se la ferita fosse più grave di quello che è?

– Esatto.

– Guardi che posso farle un certificato medico, cosa si deve scampare?

In quel momento, su whatsapp mi arriva la foto di un metroquadro di torta. La mostro.

– Ma che roba è?

Nicola sposta un occhio dalle garze e sentenzia:

– Sembra Peppa Pig che si ingroppa un Mini Pony.

– Iddiobenedetto. Festa di compleanno?

Annuisco.

-Nipote?

Riannuisco.

– Quanti anni?

– Sei.

– Figlia di?

– Dottore, non mi faccia dire.

– Intendevo, figlia di fratello?

– Sì.

– Il che presuppone una…

– Cognata.

– Nicola, molla le garze e ingessa la signora fino al bacino.

 

(tanti auguri, Nipotastra. un giorno capirai)

 

[una cosa divertente (insomma) che non farò mai più]

Ok.

Adesso mettiamoci comodi che dobbiamo parlare.

– Ho capito bene, ha detto “scappare”?

– Chi ha detto “scopare”? 

– “Scappare”, nonno, “scappare”. 

– Nonno lo dici a tu’ zio, io c’ho quarant’anni portati splendidamente. 

– Allora c’hai un chiodo fisso. 

– Non mi piace lo stoccafisso, prenderò un hamburger di cammello e un chinotto, grazie.   

 

Qualcuno di voi già lo sa, qualcuno l’ha intuito ma è stato così educato da non fare domande indiscrete. Ringrazio di cuore per la delicatezza. Le cazzate, per una volta, stanno a zero.

E’ che non pensavo che sarebbe successo.

Non ci pensavo proprio.

Voglio dire, alla mia età, suvvia.

Tutti i tuoi begli equilibri, la tua pace interiore, le tue convinzioni, anche sbagliate, per carità, ma lo sa il demonio se a qualcosa ti sei dovuta aggrappare, in certi momenti.

E poi, di punto in bianco.

Avete presente quegli oggetti alieni semoventi che fanno un sacco di chiasso, sparpagliano le vostre certezze, pretendono un sacco di attenzioni, mandano in malora le vostre più in/sane abitudini, sembrano incapaci di compiere da soli operazioni ridicole, arraffano le vostre cose più care e preziose, compresi voi stess*, e ve le restituiscono ridotte a una malloppa esausta, zozza e decomposta che risulterebbe irriconoscibile persino alla prova del DNA?

Non i fidanzati, no.

Nemmeno i cani.

Per quanto uno dei fondamenti su cui si è felicemente basata finora la mia esistenza veda protagonisti proprio i cani e le entità aliene di cui sopra.

Esatto.

I bambini son come i cani.

Vi sfido a dimostrare il contrario.

I cani e i bambini non sono adorabili in quanto tali. Non sono creature pucciosissime che qualunque cosa facciano, dal ridurre a brandelli la vostra collezione di Nathan Never al cagarvi sul divano, si configura immancabilmente come la nona meraviglia del mondo e bisogna stupirsi moltissimo se qualcuno di estremamente insensibile non la prende come tale, e anzi.

I cani e i bambini sono esseri fondamentalmente stronzi che vanno guardati con sospetto.

Obiezione: loro non c’entrano, la colpa è dei genitori/padroni.

Accolta.

Una madre che, la mattina a colazione, come prima cosa, dice al figlio cinquenne “hai visto che papà non ti ha chiamato neanche oggi mentre è in vacanza con la sua nuova famiglia, vuol dire che non ti vuol più bene” va presa e volata dal quinto piano senza rimorso e senza condizionale. Presente indicativo, se non imperativo.

Ma se il cinquenne ti piscia deliberatamente sul terrazzo per cattiveria pura che tanto sa bene resterà impunita, la segue a ruota.

Cani. Mocciosi. Se li conosci, li eviti.

Per anni, gli unici a costituire l’eccezione a questa regola sono stati i miei ex nipoti, che uno sforzo educativo sovrumano (oltre che di saldo impianto mitteleuropeo) è riuscito a trasformare da materia bruta a uno zero virgola di speranza nel futuro.

Anche gli esperimenti condotti da amici considerati affidabili hanno dato esiti discordanti: dalla realizzazione della bambina-patella (la cui madre esasperata – ma non abbastanza – ci ha sempre fermato all’ultimo dopo averci supplicato in lacrime di schiodargliela di dosso anche impiegando coltelli spuntati e arrugginiti) alla messa su strada di individui miniaturizzati il cui unico problema di essere nati figli di ingegneri non basta a spiegare certe risposte inquietanti (“Guarda, Leonardo, quelle sono piante di cappero, quelli che mangi sulla pizza” “Non esattamente, babbo, quelli che mangiamo sulla pizza appartengono alla sottofamiglia della Capperacea Barattoliformis, mentre questi sono esemplari di Capperum Selvaticus Muraglionis. Essi sono in grado di misurare il tasso di umidità in queste mura tufoidee realizzate dai pisani nel XII secolo, e ivi si insinuano, una volta stabilito che il ph del terriccio che si ritrova nelle crepe è compreso in un range ascrivibile al quadrato costruito sull’ipotenusa di Heisenberg e…babbo, dove vai? Guarda che in questo punto le mura non sono abbastanza alte per garantire morte certa, in più l’angolazione delle pietre, orientate a 37,9 gradi sulla scala Richter rispetto alle porte di Tannhäus…babbo? Babbino?”).

Grazie al cazzo, mi direte, tu figli non ce n’hai.

È vero. Per una serie di motivi che sarebbe lungo e tedioso spiegare, e che in buona parte farebbero sembrare la piccola fiammiferaia l’animatrice di un Club Med, non ce n’ho. Ma se lì fuori c’è gente che s’incazza per un fuorigioco non concesso sulla linea mediana, che sostiene che il tè altro non sia che insulsa acqua calda e che Fabio Volo sia uno scrittore, io potrò ben sparare fregnacce sull’educazione della prole altrui.

(e comunque casa mia è ordinata tale e quale come avessi sei figli)

Ma torniamo a noi.

Per una serie di circostanze fortunate, negli ultimi tempi mi è capitato di conoscere persone che sulla loro progenie stanno svolgendo un lavoro talmente encomiabile che la mia fiducia delle generazioni future è salita fino a sfiorare la fantascientifica percentuale del 3%.

Il che ha, evidentemente, abbassato le mie difese.

Non si spiega altrimenti.

Quando meno te lo aspetti.

Eh.

Lo so che sto ciurlando nel manico, ma non è mica facile. Ho aspettato diverse settimane prima di decidermi a raccontarlo, continuavo a ripetermi che non è mica chissà che, milioni di persone nel mondo, tutti i giorni, fanno la stessa cosa senza vederla come un evento straordinario, anzi, è una cosa naturale, e poi insomma, finché si tratta di far la cazzara d’accordo, racconto senza pudore questo mondo e quell’altro, ma sulle cose personali superare una certa riservatezza non è facile.

La fredda cronaca:

qualche settimana fa. Sono ospite per qualche giorno di un’amica che vive fuori città. Nel bel mezzo della mia permanenza, lei si becca il colpo di coda di un virus che la manda completamente al tappeto. Il piano A – bagordi come non ci fosse un domani viene sostituito dal piano B – non sto in piedi manco sdraiata e vomito pure l’acqbleurgh.

Dettaglio insignificante: la mia amica si è riprodotta. E neanche poco. Detiene la mia quota mezzopollo trilussico, la mia e quella di altre due o tre che hanno optato per la non proliferazione. Quindi siamo io, lei – vispa come un opossum investito da tre giorni – e bambini.

Tanti bambini.

Roba da dire “tutto qui?” guardando con sufficienza la famiglia Bradford.

(in realtà sono meno di dieci. Ma si muovono. Parlano. Chiamano. Si arrampicano. Piangono. Ridono. Chiedono cose. Escono dalle fottute pareti. Quindi sembrano molti di più)

Mi direte: e non ce l’hanno un padre, ‘sti marmocchi?

Certo che ce l’hanno, la mia amica è una tradizionalista. Ma in questi giorni è fuori per lavoro. A dire il vero, nel momento in cui viene a sapere che la sua compagna è fuori combattimento e i suoi pargoli si ritrovano, all’ora di cena, in balia di una specie di disadattata che pensa di dar loro delle verdure e una frittatina invece dello stinco di bue muschiato con cipolle e cozze che sembra costituire il loro mangime preferito, corre a cercare il primo volo per tornare a casa.

Ma non lo trova.

Disordinato anche lui, mica no.

Arriva invece la mamma di lei, santa donna, che cena la tribù e se ne porta via una carrettata per la notte.

E quindi siamo io, lei – stordita da un antisalcazzo per bisonti e finalmente assopita – e due mocciosi incerti sulle gambe.

Alle otto d sera.

L’ora in cui normalmente questi tizi vanno a letto. Mentre ora giocano a Peppa Poker, fumano (“Fumano??” “Cazzo, avevo lasciato il tabacco sul tavolo e pure questo grumo bavoso che una volta erano. I miei. Filtri. E le mie. Cartine”) e trincano Bailey’s (“Bailey’s??” “Eccerto, c’è la crema di latte, siamo pur sempre bambini”) senza accennare al minimo cedimento.

Le otto e mezza.

Vabbè, mica moriranno se stanno svegli mezz’ora in più.

Le nove.

– Bimbi, la volete la favola della buonanotte?

– Leggitela te, noi stiamo guardando “Maiali senza gloria”.

Che poi che ci vuole, li pigli, li schiaffi a letto e spegni la luce.

Ah, già.

Le scarpe.

Tiro fuori la piccola dal lettino per levarle le scarpe e lo sento. Lo sento perché qualunque essere vivente, ma anche non vivente, a cui non abbiano infilato due carciofi nel naso non può non sentirlo.

Le fogne di Calcutta?

No.

Il reflusso gastroesofageo di Alien?

Macchè.

Un’arma chimica di natura che mi piacerebbe definire ignota, e invece, ahimè, è chiaramente determinabile.

E non proviene da lei, il che la dice lunga sull’intensità, visto che l’entità emanante si trova due stanze più in là.

Spoglio la piccola, ravano in un armadio alla ricerca di qualcosa somigliante a un pigiama, non lo trovo, la insacco in una calzamaglia rosa che deduco solo dopo avercela infilata appartenere alla sorella maggiore, faccio un nodo in cima perché non ne esca e la rimetto a letto.

E poi torno dillà ad affrontare l’inaffrontabile.

La mia amica ha un salone grande. Ma grande. Grande più di tutta casa mia da un estremo all’altro. L’inaffrontabile guarda la tv a circa un chilometro da me, sereno come fosse seduto in mezzo a un campo di violette.

Sarebbe facile: apro la porta senza far rumore, me la chiudo alle spalle e m’imbarco sul primo cargo battente bandiera liberiana di passaggio.

Ma non posso. Ho una coscienza (nonostante tutto). Voglio bene alla mia amica come a poche altre persone, e lei ora giace tramortita in un letto di microbi e in più mi sta pure ospitando. E questa specie di gnomo ha tre anni scarsi e dice tre sole parole.

La prima è mamma.

La seconda è banana. Non chiedete perché, preferite restare anche voi nella spensieratezza dell’ignoranza caprina come faccio io.

La terza è il mio nome.

La quarta parola la dico io, ed è un’invocazione a San Medardo protettore delle mucose nasali infiammate quando provo a raggiungere lo gnomo e una parete invalicabile di tanfo tremebondo mi respinge indietro.

Epperò ce la devo fare. Per forza. Valuto una serie di opzioni:

  • opzione A: cercare un autolavaggio aperto 24 ore nei paraggi, spogliare lo gnomo con un rampino, dar fuoco ai vestiti, inchiodarlo alla rampa, attivare gli spazzoloni e ritirarlo all’uscita pure cerato;
  • opzione B: comprare dal cinese qui di fronte una chiatta di sabbietta per gatti e panarcelo;
  • opzione C: idranti.

E poi, l’illuminazione:

qual è il problema principale?

Questa  puzza disumana.

Come si sconfigge la puzza disumana?

Col profumo.

Quindi basta che io mi tenga sotto il naso un batuffolo di cotone imbevuto di profumo ed è fatta. Che ci vuole.

Sacrifico metà della mia boccetta di Eau de baccell intense de vanille purissimà raccattée à main par les enfants de Bangalore dans une nuit de demi eté su un dischetto di cotone, me lo sbatto sotto il naso e parto a passo di carica a prendere l’inaffrontabile.

E mi accorgo che mi manca una mano.

Sterminatore di re, io ti capisco. Non è una sensazione piacevole.

Mi ricordo che anni fa, pur se con tutta calma e con ogni probabilità nemmeno in un bar, mi capitò di leggere un racconto che Baricco scrisse per l’edizione di quell’anno della Smemoranda. Trattava di lui, novello padre, alle prese con la stessa esperienza traumatica che mi trovo ad affrontare adesso.

(il che mi ha sempre fatto sospettare che in un momento di confusione mi sia stata assegnata una dose di istinto paterno invece di quello materno, ma questa è un’altra storia)

Fatto sta che, tra le altre cose, si raccomandava di fare molta, ma molta attenzione all’istinto trotesco degli infanti, che li porta a sgusciarvi via dalle mani e a cascare a capofitto dal fasciatoio, con conseguenze devastanti per loro ma ancor più per il proseguimento di normali rapporti sessuali tra i novelli padri e le novelle madri.

Ora, al di là dei rapporti sessuali che è sempre cosa buona e giusta intrattenere con le giovani madri, e vieppiù con i giovani padri, a me questa cosa m’è rimasta impressa al punto da tornarmi in mente ora a distanza di anni.

E comunque non se ne esce:

cambiare una potenziale anguilla  > necessità della piena disponibilità di almeno due mani

disponibilità nominale di due mani > disponibilità reale di una sola, in quanto l’altra è impegnata a reggere sotto il naso il cotone impregnato di profumo

mollare il cotone impregnato di profumo > morte certa

morte certa > impossibilità di cambiare l’anguilla

A meno che.

A meno che non mi leghi il cotone sotto il naso con qualcosa.

A volte son talmente geniale che mi faccio paura da sola. E di solito ho ragione ad averne.

Setaccio la casa alla ricerca di uno spago. Di un laccio da scarpe. Di un fil di ferro. Di una cintura d’accappatoio. Di un rotolo di gaffa. Di una tagliatella all’uovo. Di una cazzo di cosa qualunque per legare un’altra cazzo di cosa qualunque.

Niente.

Di niente, di niente, di niente.

Non posso credere di essere finita in casa di gente così noiosa da non avere nulla con cui legarsi.

Infatti no.

Intorno a mezzanotte, quando anche la famiglia PIg s’è messa una zampa sulla coscienza e ha deciso di darmi una mano a cercare pur di andarsene a letto, la trovo.

Nello studio.

In fondo a un bidone di giocattoli.

Una stella filante.

E oh, i gusti son gusti, se questi lanciandosi coriandoli e frustandosi con le stelle filanti ci han tirato fuori ‘sto fracco di ragazzini si vede che gli sta bene così.

– No, ragazzi, stasera non resto a calcetto, torno a casa che la mia ragazza mi aspetta vestita da Colombina e ha promesso di farmi le frappe.   

Schiaffo.

Lego.

Torno dalla bomba chimica mentre il comitato di quartiere finisce di raccogliere i soldi per pagare un Canadair che li innaffi tutti di Chanel n°5 prima che i danni al sistema neuronale e all’apparato riproduttivo diventino permanenti.

Bomba chimica mi guarda assai perplesso, come se non avesse mai visto una rimbambita spettinata con un metro cubo di cotone tenuto legato sotto il naso da una stella filante gialla e viola.

Faccio tutto quello che devo fare.

Lui sopravvive.

Io pure.

E questa era la prima volta in cui persino io ho cambiato un bambino.

In un senso diverso dal solito.

 

– Buongiorno, vorrei cambiare questo bambino. 

– Ma certo, con cosa posso sostituirglielo? Ho dei bei portieri nerboruti, arrivati stamattina dalla Spagna, un ex nazionale di hockey su ghiaccio, un po’ incidentato, ma fa la sua figura, e forse ancora qualche pallavolista cubano bello succoso. Fanno tra i 75 e gli 80 kg l’uno, che faccio, lascio?    

[the mesianos]

Siamo io, lui e un bidone di gelato a un gusto assurdo e lezioso tipo “pralines et vattelapêche”.

Una cosa ignobile.

Un gusto per niente maschio e senza l’ombra di un fischio.

Otto anni in Francia, e guarda come mi si è ridotto, soprattutto considerando che l’ultima volta che abbiamo condiviso del cibo smembravamo una pizza a mani nude.

Dal cartone.

Sul cofano di un’Amaranta cui si era appena suicidata la cinghia.

In piena Golconda.

Riparati nel piazzale di un distributore, tempo venti secondi e il titolare del distributore medesimo si manifestò, con quel simbolo internazionale di pace e amicizia che è la doppietta a tracolla, a vedere chi cazzo fossero quei tre capelloni sconosciuti che infestavano la sua immacolata stazione di servizio, il più rassicurante dei quali era il tipo che ora ravana nel bidone con un cucchiaio leccato alla ricerca delle ultime pralines.

(non puoi trovarle, ciccio. sono nipote di minatore, imperatrice galattica degli scavi nel gelato. e non faccio prigionieri. me le son fatte fuori tutte mentre eri impegnato a controllare che le tue figlie non si dessero fuoco ai capelli)

Che tu pensi: come l’ha saputo?

(non del fatto che io sia maglia rosa di stronzaggine, del fatto che tre tossici strafatti di capperi tenevano un rave nel suo piazzale)

Semplice.

Radio Maria.

Radio Maria è potentissima. Arriva ovunque. Soprattutto se la Maria in questione è Maria Cràstula Buccoperta, 56 anni di onorata carriera come ripetitore.

 

E comunque siamo io, lui e il bidone. Le rose faceva un po’ troppo teatro, e poi non le sa distinguere dall’oleandro.

E festeggiamo.

Perchè ne abbiamo da festeggiare.

Festeggiamo innanzitutto che ci vediamo dopo un sacco, ma un sacco di tempo.

Tipo, tre bambini fa.

Una dei quali (Roxanne? Charline? Cosa diavolo le hanno inventate a fare le stampe sulle magliette se poi non gliene appioppate una col nome ciascuna? le mocciose cresceranno convinte di chiamarsi Hello e Kitty, vi uccideranno nel sonno prima di compiere sei anni, e saranno insignite dell’Ordine del Telefono Azzurro) ci sta mostrando il corretto uso del melone.

Il corretto uso del melone è: palleggiarlo.

 

– C’est pas un ballon, ça.

 

La madre, bellissima e dedita al consumo di sostanze psicotrope dalla più tenera età. Non si spiega altrimenti come si possa accompagnare a un elemento simile. Pralines et caramel. Bah.

 

-Oui, c’est un ballon.

Ne scherzons pas. C’est rond. C’est un ballon. Non so a quanti anni si cominci a votare, in Francia, ma fino ai tre le idee sono ancora ben chiare.

 

-Non, c’est pas un ballon, c’est un melon.

 

Ah. Donc “melon” c’est le mot avec lequel les italiens appellent le ballon. Ils sont fous, ces italiens.

Roxanne o Charline riprende ad allenarsi per i mondiali 2030 al grido di “Thierry Henry ou mort!”.

 

Festeggiamo anche il fatto che la sottoscritta sia ancora a piede libero.

 

(cinque ore prima. al momento di noleggiare la loro auto, dopo tre quarti d’ora di fila e non un minuto prima, dopo averla cercata persino all’interno dei pannolini e delle capsule dentali, tocca arrendersi all’ineluttabilità del fato: Soi ha perso la patente.

 

– Pas mal. Dò la mia.

La prima volta che lui ha pronunciato le parole “pas mal” è stato nel ’96 al momento di prenotare le vacanze. “C’est dommage que les îles Fijii sont déjà toutes reservées, mon amour. Pas mal, j’ai trouvé ce dernier minute just à côtè, Mururoa ça s’appelle, on va etre une vacance avec le bot”.

 

– Signor Mesiano, la sua patente è scaduta.

– Ah sì?

L’impiegata dell’autonoleggio ha il raggio gamma selettivo. Scansa il piccolo di quattro mesi di cui lui si fa ignobilmente scudo e gli frigge le sopracciglia.

– Da due anni, signor Mesiano.

Lui sorride tronfio.

Così, giusto per far capire chi porta i pantaloni in casa.

 

Prima che l’impiegata prema il pulsante eject si gioca l’ultima carta.

– Per puro caso c’è qui una nostra amica.

Posa il figlio piccolo, mi afferra come fossi un’anfora e mi poggia sul bancone prima che possa dire “monpetitlapinensucre”.

– Non sia indiscreta sul come, ma sappia che ha conseguito una regolare licenza per condurre quadrupedi motorizzati. Noleggeremo l’auto a nome suo. Ho detto.

– Quindi la signora vi farà da autista per tutta la durata del noleggio?

– Non capisco questo velato scetticismo. Manco la nostra amica avesse sulla testa un cartello recante la scritta “COL CAZZ” …oh. In ogni caso sarà solo per due giorni, mercoledì sarà mia cura rinnovare la mia patente.

Sia l’impiegata che l’anfora hanno il buon gusto di non chiedere il mercoledì di quale anno.

– Il noleggio deve essere caricato sulla carta di credito del conducente, però.

Agevolo la mia carta.

– Bene, la tariffa comprensiva di franchigia è di 62 reni al giorno per 15 giorni, più 70 cornee per i seggiolini dei bimbi per l’intero periodo e 500 fegati di cauzione.

– Al cambio con le fettine di culo quanto fa?

 

Scuoto la carta.

Ne escono una graffetta, un tappo di Desperados, due filtri, un’agenda della Royal Bank of Balordistan del 2004 e un elastico cotto dal sole.

– Abbiamo tre bambini piccoli, cinque bagagli, un passeggino doppio e una specie di noce di cocco imbottita per infanti. Siamo senza latte nè pannolini. Dobbiamo fare la spesa. La casa che abbiamo affittato è a 35 km da qui e la strada è tutta tornanti. La bambina ha vomitato prima ancora di vederla. Nella macchina della nostra amica non ci staremo mai manco a castello. Le cavallette! La tintoria! Una tremenda inondazione! Abbiamo bisogno di quest’auto!

Un impronta di scarpe n.42 sul culo indica le uscite di sicurezza a tutti e sei, bambini compresi.

 

Nonostante la naturale riluttanza a metter piede oltre una soglia dove campeggia la scritta “polizia”, andiamo a denunciare la scomparsa della patente di Soi nell’assurda speranza che possa servire a far dar loro una macchina. Mandiamo avanti lei con le gemelle, l’immagine della maternità e della dolcezza. Segue quella della paternità incerta, soprattutto a giudicare da come è venuto fuori il terzo ragazzino. Chiude il corteo la rappresentazione plastica della sensualità ferina.

 

Aggiro la Venere nera che si è inavvertitamente infiltrata nel nostro entourage e faccio sì che l’emblema della femminilità selvaggia (che fa molto più figo di “quella che non si pettina”) possa ricongiungersi al nostro nucleo familiare espanso e pararsi insieme ad esso di fronte a

 

Lurch

 

per incomprensibili motivi di sceneggiatura (si vocifera di uno scambio alla pari con lo staff creativo di Beautiful) insaccato dentro una divisa della polizia di stato.

 

Dolcezza materna: -Bonjour, vorrei denunciare lo smarrimento della mia patente.

Lurch: – Eeeeeeeeehhhhhhh.

 

E per lui il discorso sembra chiuso.

A questo punto sono consapevole di avere una linguetta, ma non c’è ancora nessun dito infilato dentro e pronto a tirarla.

 

Paternità incerta: – Sì, perchè dovremmo noleggiare un’auto.

Fa un gesto ampio col braccio a comprendere tutta la responsabilità di un padre e marito di fronte a una casa delle vacanze irraggiungibile anche volendo agganciare tutti i trolley l’uno all’altro e trainarli monopattinando sul passeggino per trentacinque chilometri.

Lurch: – Eeeh, ma la denuncia…no, è impossibile.

Scuote la testa contrito. Gli avessimo chiesto se potevamo prendere in prestito la sua pistola d’ordinanza e sparare ad alzo zero nel parcheggio, sì. Ma una denuncia di smarrimento, siamo seri.

A questo punto, cinquanta chilometri sotto i miei piedi, il magma incandescente comincia a sobbollire.

 

Ci guarda stupito di trovarci ancora lì e decide di dare maggior lustro alla divisa compitando una frase più elaborata.

– Ma proprio oggi la deve fare? La faccia fra un paio di giorni.

Ora, effettivamente l’ufficio potrebbe essere più vuoto e ozioso di così. Se per esempio uscissimo e lo lasciassimo libero di levarsi le scarpe, stendere le gambe sulla scrivania e inclinarsi all’indietro sulla sedia non lo costringeremmo a girarsi faticosamente i pollici in posizione eretta.

A questo punto sto facendo appello a ventitre anni di onorata carriera arbitrale e prosciugando telepaticamente le riserve zen di un migliaio di monaci buddisti.

Lo sapevate voi che i monaci buddisti tendono a innervosirsi quando devono denunciare lo smarrimento della patente e si trovano davanti un poliziotto ottuso e lavativo che prima di compilare uno stracazzo di modulo si farebbe impiccare?

Nemmeno io.

Non prima che lo spirito del Dalai Lama in persona si impadronisse del mio corpo e, con voce pacata per non turbare i minori presenti, tirasse giù a colpi d’azza l’albero genealogico del poliziotto presente e quello dei suoi superiori, dei loro vicini di casa, dei loro animali domestici, dei loro mezzi di trasporto e dei loro robot da cucina, dei loro conduttori televisivi preferiti e delle loro insegnanti del catechismo, tutti alacremente dediti a pratiche poco discrete e ancor meno igieniche con buona parte del regno animale, vegetale e minerale purchè morfologicamente atto a procurare, se non un misto di piacere e dolore, almeno infezioni, emorragie interne e fastidiosi pruriti intimi. Chiusa la parentesi aperta due giorni fa)

 

Lo osservo mentre sgranocchio le ultime pralines alla faccia sua. Negli ultimi venti minuti l’ho visto stappare una birra reggendo il terzogenito sotto l’ascella e farne finire il tappo (della birra, non del terzogenito) in un bicchiere solo per riscuotere uno sguardo d’amore puro da parte delle figlie; lavare il terzogenito medesimo a starnuti dopo che le altre due teppiste gli avevano infilato un pastello a cera ciascuna nel naso (a lui, non al terzogenito); fare la scarpetta nel sugo con l’orecchio di un cane di peluche di nome Bob. Se quest’impiastro è amico mio ci sarà un perchè. E il perchè è presto detto.

 

– Papa, papa, à côté de la toilette il y a un tout petit lavandin. C’est pour les enfants, oui?

– Oui, mon amour. Les italiens son trop avant.

– Ils sont fous, ces italiens.

 

[un tranquillo compleanno di paura]

Tema: la mia famiglia.

Svolgimento: la mia famiglia è composta da me, il mio papone e mamma al primo piano, nonno e nonna al pianterreno, e zia Out. Zia Out non abita vicino a noi perchè dice che se stiamo a distanza di sicurezza ci vogliamo più bene, però la distanza di sicurezza non deve essere abbastanza, perchè ogni tanto anche a lei le tocca mangiare quello che cucina mamma.

Mamma cucina cose bellissime che sembrano fatte col Didò, solo che sul Didò c’è scritto “commestibile”, che vuol dire che se lo mangi poi non devi andare in ospedale a fare la lavanda gastrica. Ho chiesto a nonna, che sa tutto degli ospedali, cos’era la lavanda gastrica, e lei mi ha detto che la lavanda è quella che si mette nei sacchetti per profumare le lenzuola, poi ha detto a nonno di non dire fesserie davanti alla bambina, che poi ripete tutto. La bambina sono io.

Ho anche altri due nonni, e zio Mortimer e zia Mortimer, ma neanche loro abitano vicino a noi. Zio Mortimer e zia Mortimer hanno lo stesso nome perchè sono fidanzati, e sono molto pallidi, come papà ogni domenica dopo pranzo, ma un po’ meno giallini. Zia Out, invece, d’inverno è verdina, d’estate si abbronza prima di tutti perchè abita in un ripostiglio col terrazzo insieme a Grogu. Grogu è mia cugina, ha quasi sei anni come me, ma mamma mi ha detto di non dirlo che è mia cugina, perchè se gli assistenti sociali scoprono che mia cugina è una gatta ci arrestano tutti.

Zia Out è molto elegante, si veste come una teppista, dice mamma. L’altroieri anche papà si è vestito elegante per portarmi al saggio di danza, allora gli ho detto che anche lui era proprio un bel teppista, non ho capito perchè ci è rimasto male. Io gli ho spiegato che era un complimento, allora lui ha parlato con mamma e adesso mamma non dice più che zia Out si veste come una teppista, dice che si veste come una che ruba autoradio.

Questo venerdì era il compleanno di nonna. Era molto contenta, ha detto che era un miracolo se ci era arrivata, non ho capito se diceva arrivata a prendere qualcosa dalla mensola di cucina, che si lamenta sempre che papà gliele ha messe troppo in alto. Il mio papone è altissimo, invece nonna è un po’ bassina, ma se lo dico si arrabbia e dice che non è mica un vaso da notte. Nonna ci ha invitato tutti a cena per il suo compleanno, e mamma ha detto che avrebbe fatto la torta, allora zia Out ha detto che lei poteva venire solo a pranzo, purtroppo. Però per fortuna non è andata via subito, quando son tornata dall’asilo nonna mi ha detto che era giù a stirare, e papà ha chiesto se per caso zia Out si sentiva male. Allora sono scesa senza far rumore per farle una sorpresa, ho aperto la porta e le ho chiesto cosa stava stirando, e lei ha fatto un salto, è diventata tutta bianca e ha urlato fortissimo, e mi ha detto di non farlo mai più, se volevo ancora avere una ziastra. Io e zia Out ci chiamiamo ziastra e nipotastra. Mamma dice che è bruttissimo perchè poi la gente pensa che non siamo zia e nipote legittime, ma non mi ha spiegato cosa vuol dire, e papà ogni volta sospira e le chiede su cosa ha imparato a leggere lei da piccola, invece che su Topolino come fanno tutti. Poi zia Out mi ha detto che non serve parlare a tutti come se stessi parlando con nonna, che poi la gente ci resta secca. Nonna è un po’ sordina da un orecchio e tutta sorda dall’altro, sente solo i rumori molto forti, come una volta che una signora si è sentita male mentre stava guidando e ha centrato il muro del giardino, quello nonna l’ha sentito ed è corsa in veranda per vedere cos’era successo, solo che non si era accorta che nonno aveva appena messo le zanzariere e ha lasciato un buco con la sua forma e nonno si è arrabbiato moltissimo.

Comunque dopo è scesa anche mamma, ha visto cosa stava stirando zia Out e mi ha portato via coprendomi gli occhi, e ha detto che era meglio se salivamo a casa a fare la torta per nonna. Zia Out invece ha detto che era tardissimo e doveva proprio scappare.

Mentre facevamo la torta è arrivato papà e ha chiesto se avevamo già avvisato la Asl, poi mi ha detto in un orecchio che era meglio se andavo a giocare in giardino per non essere esposta alle radiazioni. Le radiazioni sono quelle cose che ti fanno cambiare colore oppure ti spunta la coda, però non si possono controllare e magari la coda ti spunta in fronte, come quando mamma era malata e mi ha pettinato papà per andare a scuola. Comunque ho preso i giochi e tutti i personaggi del presepio e sono scesa in giardino. L’altra nonna è venuta a trovarci domenica scorsa che era anche la festa della mamma, e le ho chiesto se voleva giocare con me al presepio, e lei si è spaventata moltissimo e ha detto che non si gioca col presepio che non è rispettoso e poi siamo a maggio, e io le ho detto che invece si poteva e le ho fatto vedere che Minni e Paperina andavano a trovare la madonna e poi prendevano il gelato dal carretto dei gelati di Hello Kitty, e l’altra nonna diceva oh no no no, e io le ho detto che non doveva preoccuparsi perchè prima di sistemarli a prendere il sole fuori dalla capanna mettevo a tutti la crema solare, e comunque Gesù bambino lo tenevo sotto l’ombrellone per non scottarsi che è troppo piccolo, e allora lei si è messa a piangere e ha detto che voleva tornare a casa sua senza neanche bere il uischi che le aveva offerto nonno. Mentre stavo giocando è arrivata nonna, e mi ha detto di non seppellirlo san Giuseppe nell’aiuola delle rose, che poi non lo troviamo più, e si è chinata per aiutarmi a toglierlo, però è inciampata nel bordo dell’aiuola ed è caduta a faccia in giù sulle rose, e ha detto di correre a chiamare papà e nonno. Papà e nonno hanno cercato di tirarla su, ma lei ha detto ahi ahi ahi perchè era tutta piena di spine e poi anche perchè forse si era rotta una gamba, però la gamba era ancora attaccata. Allora siamo andati al pronto soccorso, e papà ha mandato un messaggio a zia Out, che doveva essere già quasi arrivata a casa sua perchè tutte le parolacce che ha detto quando ha letto il messaggio sembrava che arrivassero da lontano.

Comunque la gamba non se l’era mica rotta, nonna, avevo ragione io, e quando siamo tornati a casa era buio ed era ora di cena, e mamma era molto dispiaciuta di non aver potuto finire la torta, allora zia Out ha detto che avrebbe cucinato qualcosa lei e papà ha ordinato le pizze, e anche una torta gelato. Io sulla mia fetta ci volevo anche una polpetta al sugo di nonna, ma mi hanno detto di no, però quando erano tutti girati per sistemare nonna in poltrona, perchè a nonna al pronto soccorso le hanno fasciato tutta la gamba, ne ho preso una di nascosto dal tegame e l’ho messa sulla mia fetta di torta, era molto buona. Poi a nonna le abbiamo regalato il chindl, ed era molto contenta perchè sperava che glielo portasse Babbo Natale, invece Babbo Natale le aveva portato un frullatore nuovo e nonna non era molto contenta, invece adesso sì, e poi siamo andati tutti a dormire, tranne zia Out che doveva guidare, e mentre andava via nonna ha detto che bello è stato proprio un bel compleanno, e papà ha detto figurarì se era brutto, e nonna ha detto che fra un mese esatto è quello di zia Out e magari ci divertiamo di nuovo così, e zia Out ha detto che quest’anno il suo compleanno per sicurezza lo festeggia in Groenlandia.

La mia famiglia è proprio una bella famiglia.

 

(Nipote a settembre andrà a scuola. Che il Signore abbia misericordia dell’anima delle sue maestre)

[with a little help from my friends]

Dice “venti rinforzati dal quadrante nord-occidentale”, dice.

E non parla di una comitiva di irlandesi in sospensorio.

(che pure danno il loro contributo a quella maschia eleganza che fa fremere noi fanciulle)

No, venti di quelli che potevo fare a meno di mettermi la camicia, prima di uscire.

Visto che appena svoltato l’angolo mi è stata strappata via a forza. Addio, amica mia. Mi mancherai. Primo perché mi piacevi molto e mi stavi pure bene, cazzarola, e poi perché da qui a stasera faranno in modo di farmelo notare in tanti, che mi manchi. Ti ricorderò così, a vagare leggera come uno sbuffo di lino sopra il Mediterraneo.

– Ahmed, ma cos’è ‘sta zozzeria? Quante volte devo dirtelo che gli stracci che usi per spolverare il cruscotto del cammello non me li devi stendere vicino al bucato pulito?

E quindi son lì che pedalo bestemmiando che manco Bartali sul Pornoi, perchè sono in reggiseno ma se continua così manco più quello, e la mamma di Eolo riscuote consensi fra tutti gli altri nani, “a saperlo prima che potevamo avere di meglio di quella sciacquetta in gonnellone giallo”, quando sulla mia sinistra colgo un movimento.

Assurbanipal.

Non uno che gli somiglia, non uno per dire “un uomo vecchissimo”, uno di quelli incartapecoriti dal tempo, levigati da, ossidati da, resi coriacei da.

No.

Proprio lui, in persona.

Come faccio a riconoscerlo, dite.

Er.

Ecco, io.

Come dire.

Ammetteròllo prima che intervenga Cùder con una delle sue teorie fantasiose sui miei trascorsi: dalle foto.

Ebbene sì, anch’io dal parrucchiere leggo Novella 630 a. C. Vergognandomene, ma senza poter resistere, come tutti. Anche voi, non fate gli innocentini. Almeno io non mi abbasso a comprarlo in edicola nascondendolo dentro Supersex per non dare adito a pettegolezzi.

E comunque.

Vento da NNO con raffiche da 95 km/h, si diceva. Roba che dice “uh, guarda, piove, eppure c’è il sole”.

Non è pioggia, sono i sassaresi che pisciano controvento tutti insieme.

Apposta.

Roba che stamattina da queste parti non volano gabbiani, no, volano caribù fuori rotta.

Dice, ma i  caribù mica volano.

Se è per questo manco gli orsi polari, le foche e le madonne delle nevi, eppure non è che quelli che volteggiano da due ore cercando invano di planare sian qui per turismo.

Ok, le madonne delle nevi le sto facendo volare io, è vero.

Assurbanipal, invece, non vola.

Assurbanipal pedala.

Senza sforzo, come se invece del tifone che cerca di estirpare duodeni ai passanti ci fosse una brezzolina rinfrescante ordinata apposta per attenuare il solleone. Dei sei capelli che ha in testa, non uno è fuori posto, e già questo basterebbe a rendermelo inviso.

(inviso, una parola, tuttattaccata. A voi leggere Supersex vi fa male)

Mi si accoda, poi mette freccia a sinistra, entra nel mio campo visivo e mi supera.

Ora, non è che io mi creda Eddy Merckx, per carità. Però capite bene che farsi superare da uno che, a occhio, ha qualcosa tipo 2600 anni più di me non aiuta la mia autostima.

Lascio giù i jeans, un polmone e la madonna del Ghisallo per alleggerirmi, pigio sui pedali, mi trito una rotula ma lo riprendo. Lui mi mostra un dente. Nel dubbio, lo prendo per un sorriso.

– Bella giornata per uscire in bici, eh?

Ora, io sono fluent in assiro. E’ solo che sul momento mi sfugge se vaffanculo sia una parola piana o sdrucciola, cascare sulla pronuncia mi secca molto. Mi limito a guardarlo. Lui, un gentleman in tenuta gialla e verde fluorescente capace di stendere un bisonte a 300 passi, distinto, composto, compatto. Sudato? Ma non scherziamo. Io, la figlia naturale di Medusa e di Gatto Silvestro a fine centrifuga.

– Non sarà affaticata?

Ma certo che no. E’ che ho un casting per “La grande stanchezza”, stamattina mi son truccata apposta.

Lui, brutto figlio di Assahaddon, ha la sfrontatezza di ridermi in faccia.

Ohè.

Calmino, neh, Assu. Che tu avrai pure diritto al rispetto dovutoti per l’anzianità, ma io sono una signora, non ci metto niente a spianarti le rughe a colpi di tiraraggi.

Egli nota il mio palese disappunto e, per non esacerbarlo, passa dal ridermi in faccia allo sghignazzare senza ritegno.

Ringrazia che sono in debito d’ossigeno, Assu, e non ce la faccio a superarti e a tagliarti la strada, altrimenti assisteresti a una migrazione di denti tra te e il tuo pignone che manco le rondini a primavera.

– Vuol sapere qual è il mio segreto?

No. Non lo voglio sapere. Non me ne importa una beata cippa del segreto tuo, di quello di Fatima e nemmeno di quello di Lady Gaga, che per inciso dice che sta tutto negli orgasmi e negli spinaci, dal che si evince chiaramente che quell’Olivia era proprio una figa di legno. In due ore ho percorso 63 centimetri, praticamente sono ancora sul cancello di casa mia. Sto per chiamare Grogu e chiederle di avvicinarmi il colbacco, i guanti da sci e la sciarpa, visto che se continua così non arriverò a destinazione prima di Natale.

– Adesso glielo faccio vedere.

Ammica, l’impudente. E prima che io abbia il tempo di dire “Signore, ti prego fulminami, ora!”, si infila una mano in mezzo alle gambe.

Mi è toccato mollare il manubrio per coprirmi gli occhi con tutte e due le mani mentre nella corsia opposta arrivava l’autobus, a momenti non ero qui a raccontarla.

– Ma no, cos’ha capito, guardi!

Lui, piedi a terra, mano saldamente in mezzo all’orrore.

– Ma non voglio!

Io, piedi a terra, occhi ancora tappati, l’eco di un saluto a mia madre da aprte dell’autista del bus.

– Si fidi, una cosa così non l’ha mai vista!

Non faccio in tempo a puntualizzare che “una cosa così non l’hai mai vista”, se non si è ben sicuri del fatto proprio, non è mai una frase saggia da dire a una donna, quando lui, con un movimento lesto del polso, riempie l’aria di un ronzio potente.

– Ha visto? C’è il trucco. Alla mia età, senza un aiutino certe prodezze non si riesce mica più a farle.

E se ne riparte garrulo, controvento e senza sforzo sulla sua cazzo di motoretta a pedali.

[corno rosso non avrai il mio scalpo]

 

Profumo di pulito.

Non faccio in tempo a portare il secondo piede oltre la soglia che mi investe in pieno.

È una frazione di secondo, nessuno si accorge della frenata brusca né dell’impercettibile colpo di frusta che mi scuote. Tempo di arrivare al centro della stanza e, come un tentacolo, mi sviscera una narice, rimbalza sullo sfenoide, sfrizzola il velopendulo e mi inonda di freschezza mattino-sera.

Mi invitano ad accomodarmi intanto che.

Rapida scansione del divanetto: niente macchie, niente peli, niente croste, niente bave canine, niente che richieda un trattamento disinfettante a base di lanciafiamme e agente orange per potercisi tornare a sedere.

È…pulito.

La cosa m’inquieta. Deve esserci un trucco. Non può non esserci.

Resisto alla tentazione di inginocchiarmi e controllare sotto. La signorina della reception mi osserva perplessa mentre faccio per sedermi con l’aria tesa di quella che sa che il primo sfioramento di chiappa innescherà un detonatore.

Resto sospesa a un millimetro dal divano, la chiappa, una sola, contratta in un equilibrismo che manco sui cessi dell’autogrill il giorno della partenza intelligente. Miseria, c’erano ancora un sacco di cose che volevo fare. La transiberiana. Arbitrare la finale di Champions. Il secondo bagno della stagione. Finire il libro che sto leggendo. Giocare agli idranti.

Mi risollevo di scatto.

La receptionist si senta libera di pensarmi devastata dalle emorroidi, non m’interessa, ma io non finirò i miei giorni esplodendo anzitempo su un divanetto troppo pulito per essere vero.

Nel frattempo è entrato un altro ragazzo, fanno accomodare anche lui. Si siede con un movimento fluido.

Non ho il tempo di cercare un riparo, penso velocissimamente “addio e grazie per tutto il pesce” e assumo quella che dovrebbe essere l’espressione intensa di chi attende la deflagrazione in 3, 2, 1, e invece, da come mi guardano, sembra solo quella di una che soffre di evacuazione difficoltosa.

(chiedere il rimborso del corso “Stanislavskij, chi era costui?” comprato su Groupon a 9€, segna: da fare)

(proporsi a Groupon come Expression Trainer del corso “Essere Nicholas Cage” a 19€, segna alla voce: cogliere le opportunità dove non ci sono)

(piantarla di divagare e tornare al punto, che persino alla pazienza degli zebù c’è un limite, segna: urgente)

Non succede niente.

Manco una nuvoletta di fumo.

Manco lo scoppio della bolla di una big babol.

Il tipo acchiappa una rivista dal tavolino, si solleva lo scroto con la maschia spregiudicatezza di colui che sa di non dover chiedere mai, accavalla le gambe e si mette a leggere.

La receptionist risponde al telefono senza pronunciare le parole “reparto grandi ustionati”.

Nessuno si accorge della scritta “come cazzo ho fatto a sopravvivere finora?” che scorre luminosa sopra la mia testa, seguita dalla data di oggi, dall’ora esatta, dalla temperatura, dalle informazioni sul traffico e dalle farmacie di turno.

Come cazzo ho fatto a sopravvivere negli ultimi anni rassegnandomi a lavorare in un ambiente più adatto alla coltura dei batteri della salmonellosi che al lavoro retribuito è una domanda che mi avvilisce. Perché conosco la risposta, e non mi piace.

Fortuna che la receptionist si riavvicina per pregarmi di pazientare ancora qualche minuto, scusandosi per l’attesa e chiedendomi se intanto gradisco un caffè. Che mi porta un minuto dopo in una tazzina di porcellana dalla linea futurista.

Riflesso condizionato, ci butto dentro un occhio prima di bere.

Nessun pelo di cane. Nessun residuo organico. Nessun nemico dell’igiene che si mette in posa per i fotografi sfoggiando una maglietta “Non metteremo la terza stella”.

Pulito.

Sta a vedere che è possibile.

E poi, finalmente, il grande capo è pronto a ricevermi.

Per quanto abituata a mantenere un aplomb britannico in qualunque situazione

– Out, scusa, ho qui una zucca gigante trainata da topi, dice la municipale che senza pass per la ZTL non possono entrare ma non capiamo dove sia la targa, no della zucca, dei topi, la zucca figura come rimorchio, aspe’, te li passo.

– Buongiorno, sono Giulio Einaudi, volevo chiederle il permesso di usare un suo status di Facebook per la fascetta del nuovo libro di Nesbø.

– No, lascia stare, coi topi in ZTL abbiamo risolto, adesso ho il problema dei Fraceecos, il cantante ha cacciato l’acupuntore dal backstage perché non aveva anche il brevetto da paracadutista, tie’, parlaci te che sei diplomatica.

– Ciao, siamo i Lacuna Coit, ci hanno detto che con un nome così non potevamo che rivolgerci a te, ti andrebbe di curare la nostra comunicazione?

– Out, cara, senti, non ti spaventare se quando apri il bagagliaio di Amaranta per aprirla mi ci trovi dentro incaprettato, niente di che, il marito di una mia amica è rientrato prima dal lavoro e son dovuto venir via com’ero, non ti dico con cosa sto scrivendo questo sms.

non riesco a trattenere un moto di sorpresa. Il grande capo è Christopher Walken. Lui. In persona. Non pensavo parlasse un italiano così fluente. Avrà casa in Toscana o a Pantelleria pure lui.

Per cinque minuti mi glassa di complimenti scanditi dal picchiettare di un dito sul plico che ha davanti. La versione 22.0 del mio curriculum, quella che comprende solo le attività rilevanti per questo settore, epurata dal resto. Parla con voce studiata e non lesina nel mostrare come il suo dentista si sia guadagnato il 18 metri attrezzato per la pesca d’altura. Intanto che arriva al dunque, osservo il suo studio: boiserie di noce del Fantastiliardistan, moquette di cachemire superfino alta mezzo metro annodata a mano da bambini persiani con un QI non inferiore a 310, blocco per appunti in pergamena filigranata dai maestri miniatori della scuola di Würzburg con midollo di moffetta albina, un quadretto piccolo con un travestito che sorride ambiguo e una maglietta con la scritta “Louvre sucks” che si intravede sotto la veste.

Bussano.

Daniel Barenboim si affaccia per chiedere se gradisce un po’ di musica di sottofondo. Lui sfarfalla una mano a significare che ha cose più urgenti, ora, il maestro si ritira con un inchino e chiude la porta senza far rumore.

Sulla scrivania di cristallo scarpettiforme e fili di caramello avvolti in foglia d’oro zecchino, un sottomano in pelle di amministratore delegato, la foto di quattro mocciosi sorridenti in grembo ad Angelina Jolie e una collezione di corni e cornetti ricavati da pezzi unici della barriera corallina.

– …la conclusione è che lei è proprio la persona che fa per noi.

– Me ne compiaccio. Adesso però avrei bisogno di qualche dettaglio su cosa vorreste che facessi, per voi.-

– Mah, guardi, fosse per me le affiderei le chiavi dell’agenzia e mi ritirerei tranquillo a vita privata.

– Il che di solito lascia intendere che i conti non siano proprio impeccabili.

18 metri. Forse anche 24.

– Mi avevano detto del suo umorismo pungente. Ma non voglio tediarla oltre, parliamo d’affari: come saprà, la nostra responsabile della comunicazione sta affrontando un problema di salute piuttosto grave. Speriamo tutti si possa risolvere in breve tempo e nel migliore dei modi, ma nel frattempo lo spettacolo deve continuare, e vorrei fosse lei a mandarlo avanti.

Si piazza in mano il cornetto più grande e va avanti spedito senza darmi tempo di aprire bocca.

– Abbiamo in ballo dei progetti importanti, dai quali dipendono le sorti dell’agenzia nella breve e media scadenza. Parlo di prestigio e liquidità immediata. Parlo del mantenimento di posti di lavoro. Parlo di responsabilità. Parlo di avversari pronti ad approfittare della più piccola debolezza senza guardare in faccia nessuno. Lei è esterna ai giochi di potere, ha fama di essere incorruttibile e di saper gestire le criticità come pochi altri. È inattaccabile sul piano etico, e riesce, a quanto mi dicono, a creare un ambiente di lavoro creativo, motivato, dinamico e sereno. Ha tutte le competenze che servono. E, per quanto ne so, al momento non ha un’offerta migliore.

– Mi prospetti la sua e le dirò se è vero o meno.

Mi piace parlare della canna del gas come se non fosse presente.

– Sincerità per sincerità, glielo dico chiaramente: non le sto offrendo un contratto a lunga scadenza. Gli accordi con la nostra attuale responsabile della comunicazione sono tali per cui, non appena le sue condizioni di salute miglioreranno, il suo reintegro sarà immediato e definitivo. Quella che le sto offrendo è un’occasione.

Cinque euro che lo dice.

– Un’occasione di visibilità irripetibile.

– Ho appena vinto cinque euro.

E uno spoiler sul resto della conversazione, temo.

Si accorge del cambiamento di luce nel mio sguardo. Le dita che prima sfioravano con nonchalance il cornetto adesso cominciano a premere e a contrarcisi sopra. Il sopracciglio si fa grave sull’occhio azzurro. Vai, Christopher, zàccaci la scena madre.

– Non pensi che non capisca il suo scetticismo. Ma mi darà atto che la nostra agenzia ha un nome e una storia. Un nome e una storia che non intendiamo certo compromettere con proposte indecenti. Lei qui avrà a disposizione tutti gli strumenti che le necessitano per portare a termine l’incarico nella maniera più proficua e soddisfacente per tutti.

Per qualcosa tipo diciassette anni, le mie giornate sono state scandite dalla campanella di arrivo treno. Non so se ci avete mai fatto caso: siete in stazione, voi sul marciapiede giusto, io di solito sto ancora a un chilometro e corro come una disperata seminando occhiali, chiavi, monete e tette, e a un certo punto attacca a suonare una campanella. Significa che il treno è entrato nella giurisdizione di quella stazione. Suona per circa un minuto, poi smette. Tempo trenta secondi, e il treno vi si scodella davanti. Un po’ come il segnale orario Rai, la pausa di silenzio prima dell’ultimo bip.

Ci son cresciuta, con quel suono lì (“e questo spiega molte cose”, diranno i miei piccoli lettori). È un suono che mi emoziona, le ultime volte che mi è capitato di sentirlo traboccavo dalla felicità. E in ogni caso è un codice che rispetto. Avvisa che qualcosa sta per succedere. Non è cosa da tutti.

La campanella ha appena smesso di suonare.

Christopher agguanta il corno con entrambe le mani e si sporge empatico attraverso la scrivania.

– Lei è una che non ha paura del lavoro. La sua credibilità è basata in gran parte sulla stima che i suoi collaboratori hanno di lei. La percepiscono come una di loro.

Ti stai agitando, Christopher. Pensi di no, ma quel corno non può diventare più lucido di così, neanche se continui a strofinarlo a quel modo. Cràvaci la stamborrata e stupiscimi.

– Quindi converrà con me che sia opportuno mantenere questo stato di cose. Nel suo stesso interesse.

Finalmente qualcuno che se ne cura. Non lo faccio nemmeno io.

– Se la imponessimo dall’alto come una privilegiata, la sua aura ne risulterebbe pregiudicata.

Pensa un po’. Ho un’aura. Mentre valuto se indicarlo o meno sulla prossima versione del curriculum (“lavoratrice specializzata, patente B, auramunita”), lui si accorge che è il momento di conquistarmi definitivamente.

– Per questo le offriremo la massima libertà di gestione dei progetti che le affideremo. Lei avrà a disposizione un ufficio attrezzato, naturalmente negli orari di apertura dell’agenzia, e uno staff di cinque collaboratori validissimi. Potrà organizzare le attività come ritiene più opportuno per il conseguimento degli obiettivi. E le garantisco la totale autonomia nella gestione degli spazi pubblicitari. Le nostre provvigioni sono invidiabili, e abbiamo un sistema di premialità che troverà estremamente interessante.

Eccallà.

– L’invidia è un concetto che non mi appartiene. E, come le avrà riferito la sua assistente, non lavoro a provvigioni. Posto che non mi è chiaro cosa abbiano a che fare le provvigioni con la comunicazione.

La risposta non è nel vento. È nel corno. Bob Dylan non aveva capito niente. E sì che “blowin’ in the horn” avrebbe avuto un suo perché.

– Come le accennavo, tecnicamente non possiamo inquadrarla come responsabile della comunicazione perché ne abbiamo già una. E non gioverebbe al rapporto fra lei e i collaboratori inserirla come una supplente.

Non te la do la soddisfazione di agevolarti il compito, Christopher. Esponiti. So che puoi farcela.

– Tutte le persone che lavorano per noi hanno iniziato allo stesso modo. E hanno ottenuto enormi soddisfazioni. Chi ha optato per proseguire la propria carriera al di fuori ha comunque tratto vantaggio dalle opportunità e dai contatti sviluppati in questa sede.

Christopher. E su. Sei un omone grande e grosso. Non dirmi che hai paura di fare una figuraccia. Coraggio.

– Le stiamo mettendo a disposizione il nostro portafoglio clienti e la forza del nostro nome. Occasioni che non capitano tutti i giorni.

Niente. Non ce la fa.

– Sono certo che capisce la portata di quanto le stiamo offrendo.

Sono certo che anche tu capisci quello che sto pensando, Christopher. Anche senza sottotitoli.

– Perfettamente.

Mi alzo.

– Mi permetta di dubitarne. Non conosco nessun altro che offra il 25% su tutti i nuovi contratti.

Prendo la borsa.

– Il 25% di zero mi risulta sia zero. Mi tolga una curiosità: il profumo di pulito lo fate con le fialette?

– Scusi?

– Non importa. La saluto.

Mi giro solo un istante, quando son già sulla porta.

– A proposito, mi spiace per la disgrazia.

Il corno tintinna forte, cozzando contro gli altri e rovesciandone due. Si affretta a raddrizzarli come fossero creature e mi fissa con un’espressione atterrita che da sola vale molto più del 25% di zero.

– Quale disgrazia, scusi?

– Quella che le capiterà per avermi fatto sprecare la mattinata appresso alle sue fantasiose teorie sullo sfruttamento. Un talento di famiglia, ce lo tramandiamo da generazioni. Di nuovo, tante cose.

Ma tante, tante, tante.

https://www.youtube.com/watch?v=zbsAk1xUrYE

(tutti i dialoghi sono originali e riportati fedelmente. nessun gallo nero è stato sgozzato durante la stesura di questo post)

 

[a song of mountain and hare – episode I]

Siamo io e lui davanti a due birre.

E lui inizia a raccontare.

E quando ha finito di raccontare, in quella maniera affascinante e spaventosamente divagatoria che non è altro che l’ennesima variante della selezione naturale, quella che serve a riconoscersi fra simili e a far scappare gli altri, quelli che quando gli dei hanno consegnato le chiavi di tutti i tappeti volanti erano impegnati a far cose serie e necessarie, tipo fare la spesa e pagare le bollette, quando ha finito di raccontare, senza curarsi di perdere il filo mentre si interrompe ogni cinque minuti – esagerata. ogni tre minuti – per salutare chiunque si trovi ad attraversare la piazzetta e gli venga incontro con un sorriso amichevole – ovvero: chiunque – quando ha finito di raccontare e il suo bicchiere è vuoto senza che l’abbia mai visto prendere un sorso, a quel punto mi abbraccia e si allontana nella sera primaverile.

E io sono dei loro.

 

(c’è una cosa, però, che devo confessarvi, amici monteleprini. Non ho avuto cuore di farlo prima, vi ho costretto a subirne gli effetti senza una spiegazione. Anche se sono certa che alcuni di voi l’hanno sempre saputo.

Le parole che non vi ho detto. Cantiere, giorno 1.

A causa di un malfunzionamento della curvatura terrestre, Montelepre si ritrova ad essere piuttosto vicino a casa dei miei. Pausa pranzo. Bilancino da – uhm, diciamo orafo – alla mano, soppeso: da una parte, la possibilità di un pasto caldo scambiato, come fosse un segno di pace, con un vassoio di devozione filiale; dall’altra, panino, libro in santa pace e la certezza che mia madre è (inconfutabilità granitica dell’indicativo presente vs. traballante possibilismo del condizionale) capacissima di uscirsene con un “non ti fai mai vedere” mentre le sto ancora davanti in scala 1:1.

Vi ho mai detto quanto sono idiota?

L’ultima speranza è riposta nella tecnologia, ma il contatore geiger abbinato al sistema satellitare RDC (Rilevatore di Cognate) lampeggia verde. Non ho neanche quella scusa.

Sette/ottavi di me sono ancora sul cancello quando un lamento strazia l’aere circostante:

–          Ohi, figlia mia!!!!!

Diciotto feriti gravi, ventinove lievi, cinquantadue dispersi e novantasei richieste di risarcimento per i danni causati dalla schegge dei punti esclamativi.

Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimorum, dopo un rapido consulto, decidono che non possono reggere il confronto, appendono l’orrore al chiodo e corrono a presentarsi al casting del Bagaglino. Io mi limito a farmi gelare il sangue nelle vene e a prepararmi al peggio.

–          Perché sei vestita come un muratore?

–          Ma %+@#§***, mamma!

–          OUTSIDER! Dove credi di essere, in una discarica? Asterisco e cancelletto! A tua madre!

 

Non faccio in tempo a obiettare che:

a)      asterisco e cancelletto è il minimo che mi possa scappar detto quando scopro che l’urlo agghiacciante è dovuto a mera divergenza stilistica e non al fatto di essere appena diventata orfana;

b)      che comunque, a pensarci bene, non mi sarei dovuta preoccupare più di tanto, visto che Tony Curtis, l’unico uomo la cui dipartita potrebbe suscitarle una reazione simile, è già morto;

c)       che visto che c’era poteva almeno metterci un po’ più d’impegno e farmi somigliare a Jamie Lee;

d)      che, a proposito di divergenze stilistiche, non mi frega più, l’ultima volta che le ho dato retta mi son ritrovata a girare per cinque anni con una busta del pane in testa dalla vergogna, dato che sulla mia prima carta d’identità figurava una foto al cui confronto la signorina Rottenmeier pareva Nadia Cassini;

e)      che non voglio sapere che discariche frequenta;

f)       e che in ogni caso sono abbigliata secondo l’ultimo grido di Vogue Carpenter come mio solito, roba che a Balmoral se la sognano, signora mia, se la sognano;

 

che alle mie spalle si materializza Zippo.

Zippo un dono ha ricevuto, uno solo: quello di riuscire a sputtanare ai nostri genitori qualunque faccenda che la qui presente sorella maggiore ritenga più opportuno mantenere coperta dalla massima discrezione. Qualunque.

–          È vestita come un muratore perché sta lavorando in un cantiere.

–          Ahia!

Dimenticandomi che, tolte le scarpe e tutti i mazzi di chiavi, i cacciaviti, le pile, i rotoli di scotch da pacchi, il listino dei congelatori, la livella a bolla e il bidone di Haribo gommose a forma di uova al tegamino che si porta appresso ovunque, metti mai scoppi una catastrofe nucleare e lui rimanga senza generi di prima necessità, pesa 54 chili vestito, gli tiro di riflesso un calcio nello stinco e mi faccio male io. Ma non sanguino, e le mie interiora rimangono prudentemente al loro posto, quindi non c’è nessun motivo valido che possa distrarre mia madre dal pronunciare la frase definitiva:

–          Come sarebbe, stai lavorando in un cantiere? I cantieri son posti pericolosi.

 

In sette giorni di cantiere ci è successo di tutto.

Di tutto.

Dal colore mancante (con conseguente segnalazione della sottoscritta alla Digos in qualità di individua sospetta che si aggirava intorno all’isolato del colorificio perché aveva visto una finestra lasciata semiaperta e cercava un modo per scavalcare il muro, infilarcisi dentro e recuperare la latta perduta) al superponte che ha reso complicato trovare negozi aperti e desiderosi di scambiare merci con vile denaro, prestazioni sessuali e pizze di fango del Camerun, e che ci ha costretto a dipingere 12 mq con un rullino grande quanto lo spazzolino da denti di Barbie, ma in compenso nient’affatto rullante; dalla pioggia ai funerali imprescindibili che hanno bruciato pomeriggi critici; dal tira e molla sul finanziamento dell’impresa, con tutte le rimodulazioni del caso, alla decisione di portarla a termine comunque (anarchy in Montelepre).

Non sapevo come dirvelo, amici monteleprini, da cosa dipendeva.

Non era la mia sciarpa viola.

È che mia madre ha il nome di un colore anche lei, ma evidentemente al viola gli fa un sontuoso pippone.

Ce l’abbiamo fatta, nonostante tutto, perciò sarebbe carino se, ora che lo sapete, non mi bruciaste casa durante la notte.

Anche perché le cronache delle nostre gesta sono appena iniziate)