[rivelazioni]

Uno dice, le rivelazioni.

Pensi di sapere tutto di una persona, ma proprio tutto.

Tuttotuttotuttotutto.

Ci sono, quelle persone.

Poche, certo, ma ci sono.

Pochissime, d’accordo.

Meno di pochissime, ok, però

Per cortesia, ce la diamo una mossa a inserire il comando

<piccoli lettori pibinchi ammutolish now>, che poi perdo il filo?

Grazie.

Ho perso il filo.

– Oh, no! Una mandria di zebù imbizzarriti sta per piombarci addosso al galoppo!

– Paura, eh?

Persone di cui pensi di sapere tutto, si diceva.

E invece.

A volte colpiscono come uno schiaffo, le rivelazioni.

Altre volte lasciano sbigottiti e senza parole. Ti precipitano in un abisso di destabilizzazione, dal quale – solo se sei fortunato – riesci a riemergere aggrappandoti all’ombra di un’opportunità che intravedi da sotto, come fosse lo scafo di una scialuppa di salvataggio.

– Se l’arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovisdestabilizzasse,vi desarciviscodesterazzi…

POW!

GLUB!

– Ma ce l’aveva quasi fatta!

– Già, c’era il rischio che pur nuotando mentre blaterava si salvasse, ho dovuto spararle.

Questa è la breve storia di una di quelle volte lì.

Le seconde, sì, le seconde volte, Brigate Pibinche adorate del sacro cuore di Sider, che ve possino.

Da un po’ di tempo a questa parte posso dire di essere smodatamente felice.

(provate a digitare “Sider smodatamente felice” nella finestra di ricerca di Google Translator e fateglielo tradurre in una lingua qualunque. Poi fateglielo ritradurre in italiano. Il risultato finale (oltre a farvi diventare piuttosto popolare nel rutilante mondo delle oneste ragazze slave – letto all’italiana, non all’inglese – interessate di conoscenza, sincero affetto e relazione stabile e disinteressata con bello uomo di Italia, anche niente bello fa uguale, io manda di foto, tu anche manda di foto, meglio se in formato .iban), dall’afrikaans allo zurrustano, sarà immancabilmente “Sider è una pazza incosciente”. Questa è la dimostrazione scientifica definitiva che Google Translator è unammerda e io sono smodatamente felice.

Per riequilibrare la situazione, un dio cattivo e noioso appreso andando a dottrina il primo giorno ha creato le poste, il secondo giorno l’ufficio di collocamento, il terzo giorno ha creato il primo del mese e il quarto ha tuonato dalla sua villa alle Cayman:

– Sider!

– Ronnie, guarda, non è il momento. Nel tentativo fallito in partenza di riequilibrare la mia smodata felicità, una congiunzione astrale che non scopa abbastanza ha deciso che oggi, primo del mese, accidentalmente quello di aprile, dovessi recarmi sia alle poste che all’ufficio di collocamento.

– Non rivolgerti a Me in questo modo, sa’?. Congiunzione astrale lo dici a tua sorella, sono io che ho deciso che.

– Ma se sei morto.

– Maledetto Guccini, non dovevo perderlo a carte con Lucifero. Lucifero bara. Hahahaha, morto, bara. L’hai capita?

– Cristo, pietà.

Assemblea: Cristo, pietà.

(in piedi)

Se le poste rappresentano, nell’immaginario collettivo, l’ultima fermata prima di lanciarsi nel Grand Canyon con tutta la Thunderbird, una sorta di zona franca in cui qualunque abbrutimento è liberalizzato e anzi, atteso, in cui improbabili tacchi 15 offendono il decoro urbano anche senza swarowski, figurarsi con, push-up Innocenti e cotonature da far dare all’alcool tutta la famiglia Ewing compresi i cavalli convivono senza che nessuno se ne adombri con ciabatte splatter, barbe incolte, eau d’inceneritoir e pantaloni del pigiama punibili con un’ammenda da 50 a 500 euro a seconda che vi siano esposti o meno infanti, cardiopatici e donne in gravidanza

-E miga si vede chedè un pigiama.

– No, certo, potrebbe pure passare per una tuta da ginnastica.

– Lo vedi ghe già ne sai.

– Lei è stato azzurro di sciatting alle Olimpiadi dell’80, riconosco il calzino di spugna. Immagino che anche se non gareggia più a livello agonistico la scaramanzia sia dura a morire.

se le poste rappresentano questo, dicevo, l’ufficio di collocamento è ancora un luogo dove invece la dignità umana trova un barlume di conforto. Le ultime tracce di aggressività si diluiscono nella rassegnazione, si aspetta il proprio turno per ore senza dare in escandescenze. I più giovani (pochi) si guardano intorno perplessi, i più grandi hanno per lo più l’aria di quelli che ancora non si capacitano di esser finiti lì. Nessuno che paia appena sceso da un carro bestiame o uscito da un cast del Grande fratello, come se presentarsi in ordine, agli altri, ma soprattutto a se stessi, rappresentasse l’ultima ancora di salvezza mentale a cui aggrapparsi per non perdere di vista il fatto che. Tutti, indistintamente, si rivolgono agli altri in maniera educata, se non cordiale. Alle poste, la signora visibilmente incinta che è appena entrata avrebbe fatto in tempo a partorire, svezzare il pargolo, comprargli l’astuccio e il diario dell’Uomo Ragno e vederlo arruolare nella Legione Straniera, tutto in piedi, prima che a qualcuno venisse in mente di cederle il posto. All’ufficio di collocamento non ha neanche portato dentro il secondo piede che si son già alzati in sei.

Un posto normale, insomma. Di quelli che non fanno audience. Persino gli uscieri non riescono ad essere convincenti nella stronzaggine che il loro ruolo impone per contratto, e gli impiegati, consapevoli di quanto poco sano sia ciondolare come dei perditempo rubastipendio sotto gli occhi di un’orda di anime dannate assetate del medesimo, fanno del loro meglio per guadagnarsi la pagnotta.

Più o meno.

Dopo neanche due ore, sul pannello luminoso esce il 992. Metto il segno al libro, tiro fuori i moduli, mi alzo, mi giro e mi rilasso. Niente scatti da primo giorno dei saldi, ma il galateo dell’ufficio di collocamento prevede di non imporre ai propri compagni di sventura nemmeno un secondo ulteriore di attesa perché non ci si è premurati di prepararsi per tempo. Come scatta il mio numero, un ragazzo in giacca di tweed verde scuro prende il mio posto e va a sgranchirsi nel campo per destinazione.

– Di cosa ha bisogno?

– Aggiornamento dello stato di disoccupazione.

Mille parole in un unico sguardo reciproco. Meglio del bluetooth. L’impiegato prende il mio fascicolo e ne infila un bordo sotto la tastiera per copiare i dati. Si ferma quasi subito.

– Sider con il th?

Non so se temere di non capire o di avere appena capito. Nel dubbio, basisco.

– Prego?

– Il suo cognome, Sider. Si scrive con il th?

Il mio sopracciglio sinistro assume non già la posizione d’urto, ma quella di un perfetto accento circonflesso.

– Per quale motivo dovrebbe?

– Ha un suono straniero.

Giro lo sguardo intorno alla ricerca della telecamera nascosta.

(ormai è tutta roba stravista, ragazzi, via, inventatevi qualcosa di nuovo)

Lui mi scruta severo da sopra gli occhiali. È un impiegato scafato e coscienzioso, lui, conosce le lingue, ha viaggiato. Nel tempo libero insegna recitazione a Kevin Spacey. Non lo coglierò in castagna.

– Con la d normale, quindi. Niente th.

– Con la d normale, certo.

– E beh, lo dice lei, “certo”.

– Sono moderatamente titolata a poterlo dire.

– Sicura.

– Sicura. A noi i punti di domanda ci fanno schifo.

Il fatto che il mio nome e cognome sia scritto in scontatissimi caratteri latini e perfettamente leggibile sul modulo da cui sta copiando non sembra convincerlo, ma si adegua.

Non del tutto, evidentemente.

– Ah, ma aspetti, questo è il nome d’arte?

Non riesco a trattenere un sussulto di sorpresa.

– Mi perdoni?

– Dalla scheda risulta che negli ultimi otto anni ha lavorato nel settore spettacolo. È un’artista, quindi Sider è il suo nome d’arte.

– Mi fa piacere che anche lei consideri arte l’haute cuisine, così come mi lusinga sapere che sul mio conto circolino anche attestati di stima, per quanto, lei m’insegna, molti nemici, molto onore. Comunque no, come vede dalla scheda sono un tecnico. Niente nome d’arte.

Si gira di poco alla sua destra in modo da trovarsi perfettamente di fronte a me, ruota le mani e unisce le falangi.

– Veramente dalla scheda lei risulta sì, tecnico, ma anche artista.

Sottotitolo: chi pensavi di fregare, cocca? Io sono un precisino.

(ragazzi, io ve lo dico, se non vedo il girato e il montaggio definitivo non la liberatoria non la firmo)

– Al di là del fatto che quello che doveva essere un ordinario aggiornamento dello stato di disoccupazione stia virando pericolosamente verso il tentativo di estorcere un qualche tipo di confessione che non riesco a immaginare, e ringrazi che siamo ad aprile anziché a dicembre, le finestre sono ben chiuse e in ogni caso ci troviamo al piano terra, altrimenti me la sarei già data a gambe, è vero che in venticinque anni di attività ho collezionato una serie di esperienze professionali quanto mai disparate, ma le pare che non sarei in grado ricordarmele?

Socchiude gli occhi fiutando il sangue.

– Beh, guardi, se la mette così, i casi son due: o lei ha la memoria corta, oppure qui qualcuno ha dichiarato il falso. Un falso su cui lei, a quanto vedo, ha percepito un sussidio di disoccupazione in precedenza. Che potrebbe non aver molta voglia di restituire allo stato. Quindi provi a far mente locale sulla sua attività artistica.

Ohibò. Qui si fanno le cose in grande. Intravedo già palme d’oro e orsi d’argento. Che peraltro si specchiano nel mio curriculum vitae a prova di macchia, ma se sul copione c’è scritto “la comparsa fa mente locale”, la comparsa fa mente locale.

– Attività artistica, lei mi dice. Parliamo di quella professionale, immagino che la danza classica da bambina, l’esame di ammissione al conservatorio, i cori allo stadio, la natura suicida dipinta per mia madre alle medie e i gran pezzi di teatro davanti alle pattuglie della stradale non rilevino. Ho disegnato molto, questo sì. Ma è stato molto più tempo fa, almeno tre pagine indietro rispetto a quella che ha davanti.

– Lei è sicura, vero?.

Lo dice torcendosi le mani in un’estasi di compiacimento, il figlio naturale di Gargamella e di Bruno Vespa che pregusta il momento in cui scoprirà il plastico del fungo dove è stata assassinata Puffetta.

– Lo sono anzichè no.

– Eppure mi conferma di essere la signora Sider Out, nata a, il, residente in Villa Balorda, comune di Plutone, codice fiscale SDRTOU69H56X911Y, metta la mano sulle pagine gialle e dica “lo giuro”.

Ho fatto cose più assurde.

– Guardi qui.

Gira il monitor dalla mia parte.

Leggo.

Apro la bocca.

La richiudo.

La riapro.

Ok, la mia mobilità orale non è compromessa e può dare ancora molte soddisfazioni.

Però.

Però.

Scorro la scheda. Nel corso degli ultimi 25, forse 26 anni mi son ritrovata a fare una quantità di lavori più o meno probabili. Sono stata una speaker radiofonica, una spacciatrice di volantini pubblicitari, un’insegnante a ripetizione, una giovane promessa del design internazionale, una consulente d’impresa pagata a peso d’oro, una bracciante agricola, un’assistente di direzione ostinata e contraria, una sarta di compagnia, un’operatrice di call center, una responsabile di produzione, un’operaia metalmeccanica, una tour manager, un’attrezzista, un’addetto gare, un’amministratrice di compagnia, una traduttrice, un’autista, una costumista e un’interprete più o meno simultanea. Quello che non sapevo, e che mai avrei immaginato, è di essere stata, per due mesi, nel 2008

– Un’artista di varietà. Ha visto che avevo ragione?

– Mi rendo conto che potrà sembrarle losco e abusato, ma se le dico che lo sono stata a mia insaputa mi crede?

Mi guarda. Da cima a fondo. Non so se lo punga pure vaghezza di farmi girare, ma grazieadio non lo fa.

– Sa che non lo so? Di getto risponderei di no, ma lei mi dà l’idea di essere una piena di sorprese.

Me ne vado prendendolo come un complimento, canticchiando

Sono un’artista di varietà

che varierà finchè la vuoi seguire

non ti disturberà

mentre l’usciere mi chiude la porta alle spalle scuotendo la testa.

[della freschezza mattino-sera]

Lo dico assumendomi tutte le responsabilità del caso: a me i cetrioli piacciono.

Il cetriolo è estate, è arrivare a casa e tuffarsi in una cofana di insalata pomodori e cetrioli ben condita, di quelle che nel sughetto che resta sul fondo ci ammolli un chilo di pane e te lo senti che si scioglie sulla lingua, e non gli dai tregua fino a che non hai tirato su fino all’ultima goccia e l’insalatiera brilla perfettamente ripulita, e appena oltre l’ombra beata sotto la quale stai mangiando c’è una luce da bruciarsi le retine e il calore che fa tremare l’aria, ma tu a quel punto sei rinfrescata e felicemente satolla e al diavolo i 40°C.

Il cetriolo merita rispetto.

Lady Augusta Bracknell. Un tipo un po’ particolare, ma ha ricevuto un’educazione, Lady Augusta il cetriolo lo ama e lo rispetta. Lady Augusta, + 50 punti, un attico a Ian Astbury Park e uno stuolo di tramezzinatori a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro.

I greci. Ho un debole per i greci da quando avevo tre anni e ancora Patrasso non era stata inventata. Mia madre ha dovuto cambiare tre pediatri prima di trovarne uno che non le dicesse che il fatto che la bambina conoscesse l’albero genealogico dell’Olimpo meglio di quello della sua famiglia fosse un filo preoccupante. Al quarto giro entrammo per sbaglio dal veterinario affianco, il quale non solo non ci trovò niente di strano, ma cominciò pure a decantare la sua personale passione per le Ore, mamma si rincuorò, quasi si commosse raccontandogli di come sua madre si chiamasse Irene, il veterinario biascicò qualcosa riguardo a un possibile equivoco ma ormai le mie orecchie implumi avevano immagazzinato l’informazione. I greci il cetriolo lo amano e lo rispettano. I greci, + 500 punti e otri di tzaziki per tutti, offro io, così siamo sicuri che a nessuno venga in mente di schiaffarci l’aglio a tradimento.

Persino il mio amico Ru Catania, dopo anni di contromilitanza attiva, ha ceduto alle lusinghe del cetriolo.

Anche se il correttore automatico pretende che abbia ceduto alle losanghe, cosa che invece spero non faccia mai. Dovesse succedere:

a)      mi auguro di morire prima;

b)      il passo successivo è andare in tour con Povia. Vedi tu.

(strano come anche gli zebù siano ghiotti di cetrioli, chi l’avrebbe mai detto. Basta nominarlo e accorrono a frotte)

Il cetriolo è una creatura nobile e umile nello stesso tempo.

Di certo non è un motivo valido per approfittarsene.

Quindi il deodorante al cetriolo è e resta un apostrofo verde tra le parole “eresia” e “cazzata abnorme”.

Ma se vi fa piacere girare con un cetriolo sotto l’ascella a mo’ di baguette, fate pure.

Volete pure il deodorante al melograno?

Il melograno macchia, io ve lo dico. Ma se vi sentite a vostro agio a girare come se vi fosse squillato il telefono mentre vi depilavate le ascelle a colpi di roncola, sentitevi libere.

Volete quello ai fiori di cotone, ai fiori di Bach, al Fiorello, alla menta e lime, alla citronella, ai sali del Mar Morto, ai germogli di soia, alle radici di mangrovia, al talco, all’amarena variegata puffo, alla madreperla delle ostriche neonate pescate a mano nella fossa delle Marianne, ai riflessi della seta viva con tanto di bachi e rami di gelso da appendersi alle orecchie, alle proteine del latte, dello yogurt, della burrata, del caciocavallo, del casu marzu e del parmigiano reggiano 24 mesi, alla vitamina B1, B2, B3 colpita e affondata?

E chi ve lo vieta?

Abbiamo voluto rovinarci l’esistenza votando sì alla repubblica, alla democrazia e al suffragio universale? Adesso teniamoci quello che sotto le ascelle si dà pure l’estratto di moffetta albina (che se è in commercio vuol dire che funziona, sennò tutti quei laboratoires cosa ci stanno a fare), nella cabina elettorale affianco alla nostra. Da una parte, dall’altra c’è quello che ha inventato la pubblicità della pomata contro il prurito intimo.

Va bene tutto.

Ci mancherebbe.

Una cosa, però.

Fate che quello che avete mandato in giro oggi pomeriggio, approfittando del fatto che il caldo quasiestivo esalta al meglio gli aromi, rimanga il beta tester isolato di un esperimento fallito.

Perché se l’intenzione è davvero quella di mettere in commercio un deodorante al soffritto, ditelo subito così avviso un paio di giornalisti amici.

Non si tratta di raptus, ragazzi.

Sarà lucida, cruenta, efferata premeditazione.

[the bends]

– Buongiorno, vorrei del raso nero, doppia altezza, per favore.

– Ne tengo uno bellissimo alto tre metri. Diegarmando, vallo a piglia’ per la signorina.

L’accento partenopeo racchiude in sé lo spirito del commercio. A tutti i livelli, dal trasformare questo locale commerciale 400mq più servizi, luminosissimo, centralissimo, due vetrine fronte strada nelle viscere del Grand Bazaar di Istanbul, alla tratta dei bianchi operata quotidianamente sui traghetti da e per le isole.

Come se non bastasse l’essere stata appena dislocata geograficamente in almeno altri tre posti diversi dalla sola forza di una cadenza e di un’associazione di idee, la prospettiva dei tre metri d’altezza mi spalanca davanti uno scenario talmente meritevole di attenzione che mi sfugge completamente la domanda successiva. Solo quando Diegarmando torna con il rotolo e lo sbatte sul banco con l’inesperienza dei suoi diciassette anni, plano e capisco di essermi persa un pezzo.

– Dico, per-cosa-vi-serve?

Il mercante sa il fatto suo. Oltre ad essere curioso come una scimmia, sa che si viene qui perché non rifilerebbe mai un articolo inadatto pur di concludere la vendita. Ripete la domanda, perfettamente logica e prevedibile.

Di quella prevedibilità logica che coglie perfettamente impreparati.

Ciononostante, apro la bocca seguendo l’impulso primordiale.

Realizzo.

Mi blocco.

La chiudo.

Io ci provo, a star seria, ma sulla linea delle mie labbra ferve un movimento che manco sulla tolda dell’Hispaniola o nello studio del marito della Daniela Garnero: tira su, no, tira giù, cazza la randa, molla il pappafico, finché la forza di gravità capisce che la battaglia è persa, molla gli ormeggi e lascia che gli angoli della mia bocca si sollevino e puntino, inarrestabili, a bucare il soffitto.

E mica ti può andar bene sempre, cocca.

Il mercante di rasi non si scompone. È un omino arzillo sui sett…ott…novecentotrentasei anni, mese più, mese meno.
Mantenuto in forma dal manipolare quotidianamente le esigenze di dozzine di donne di tutti i tipi, tutte le età, tutti i colori e non è escluso che in alcuni casi abbia approfondito anche il versante sapori.
Aduso a soddisfare le richieste più strane:

– Mi serve del percalle per un bouquet.

– Il percalle lo usa per le lenzuola del corredo. Che tipo di bouquet deve confezionare?

– Di calle.

– Scemo io.

 

– Questo pile qui, ce l’ha anche con disegni di altri animali?

– Quello ce l’abbiamo con cagnolini, gattini, coniglietti, topolini, pulcini, elefantini e ranocchie.

– Iguane no? Devo fare il cappottino per la mia iguana, mica le posso mettere addosso un altro animale, si offende.

Da gentiluomo qual è, però, non può non apprezzare le sfumature della discrezione.
D’altra parte, il mercante di tessuti è come il medico, se non gli dici tutti i sintomi non può darti la cura giusta. Quindi.

– Devo fare delle bende.

Tecnica. Seria e professionale, gli angoli della bocca hanno smesso di treninare “brigitte peugeot peugeot” per il negozio trascinando matrone dallo scampolo facile e sarte segaligne poco inclini a scollare, e son tornati al loro posto.

– Delle bende tipo…mummia?

Il mercante si fa cauto.

– Nonno, quelle sono bianche, di lino. Queste le deve fare nere. Come quelle dei condannati a morte.

Diegarmando, una testa non del tutto sprecata a far da sostegno a barili di gel.

Ma è giovane.

È giusto che chi ha un potenziale abbia uno scopo, ma se procede prima del dovuto si smarrisce; se invece trova una guida e la segue otterrà il suo stesso beneficio (propizia è perseveranza).

Il mercante lo guarda con affetto, sorride e gli legge il futuro attraverso.

– Diegarma’, quella la signorina ha intenzione di farli morire, ma mica fucilandoli.

Mercante di rasi 4 – Resto del mondo 0.

O rei è ben saldo sul trono, Diegarma’.

[affari di famiglia]

Io la mia parte l’ho fatta.

Ho spostato le sedie, srotolato metà della pompa, preso in mano lo spazzolone, addirittura ho guardato con intenzione il flacone dello Spic&span.

Più di questo non mi si può chiedere.

Non quando la primavera mette in scena una prova filata impeccabile, a meno tre dal debutto.

Sole splendente che scalda forte senza bruciare, brezzolina leggera profumata di mare, cuscinone da terrazzo che mi guarda invitante. Cosa potrebbe mai sopraggiungere a turbare il godimento di un abbraccio reciproco, languido e pigro?

Il maledetto squillo del maledetto telefono, ecco cosa.

Ora, quando il telefono squilla con la suoneria de “Lo squalo”, che non mi sono mai sognata di scaricare, sale in zucca vorrebbe che l’utile attrezzo venga scagliato all’istante il più lontano possibile mentre ci si butta a terra dietro la prima cosa utile a ripararsi dall’esplosione, senza manco pensarci.

Il sale in zucca.

Vacca miseria, ecco cosa mi son dimenticata di comprare.

–          Domani vieni a cena, sì?

Tutto il tepore di poco fa si è ritratto come un paguro. Un pinguino mi chiede se ho mica una termocoperta da prestargli, che solo con la tuta da sci c’è da battere i denti.

–          Ciao mamma.

–          Non arrivare tardi come al solito, lo sai che tua cognata ci tiene a cenare puntuali.

Mi si surgela il midollo spinale lungo la schiena. “Cognata” e “cenare” nella stessa frase delineano una concatenazione di crimini efferati contro l’umanità, con la sottoscritta nello scomodo ruolo dell’umanità. Già mi ci vedo, in corsa per l’Oscar:

–          Oscardiniamo er pancreas? Tanto ormai è spacciata, chissà dove l’ha presa tutta questa stricnina.

–          Dici che è stricnina? A me pareva più minestrone.

–          Ci metti le uova crude, nel minestrone, tu?

–          Gesù, che schifo, no! Piuttosto mi prenderei la stric…oh.

 

Non dico di voler imporre la mia presenza sul pianeta a tempo indeterminato, ma qualche altra settimana di vita vorrei godermela.

–          Non posso, mamma.

Dall’altra parte, in sottofondo, comincio a sentire un certo tramestio, come di gente che si litiga il telefono.

–          Come sarebbe, non puoi? Cosa devi fare che non puoi? Leva quella mano, tu.

–          Sono designata, non posso.

–          Ma se è mercoledì sera!

–          Sono designata in Champions.

Ci pensa. Le scoccia moltissimo passare per quella non informata, ma le scoccia di più abbassarsi a chiedere. Nel frattempo, il tramestio in sottofondo aumenta. Colgo distintamente un “passamela” e un principio di colluttazione.

–          Passi abbandonare la tua povera madre malata senza uno straccio di – togli la mano, ho detto, sto parlando io – compagnia e conforto, ma è la festa del papà, almeno lui, pover’uomo, pensa se fosse la vostra ultima occasione per veder… insomma, la pianti di bofonchiarmi nelle orecchie, tu, toh, te la passo, così la smetti. E togliti la mano dalla tasca.

–          Ciao papà.

–          Ciao. Volevo solo dirti che non fa niente se non vieni a cena, domani ser…

–          Ma come, non fa niente, ma certo che fa, tu da che parte stai? Se non la incastri così col cavolo che riusciamo a vederla, tua figlia! E poi ci sono anche i genitori di Zippa, e il fratello di Zippa con la fidanzata, tutta la famiglia di Zippa al completo e noi che figura ci facciamo?

–          …però se per caso riesci a fare una scappata A PRANZO, anche se siamo SOLO NOI TRE, mi farebbe piacere.

–          Contaci. Ti voglio bene, papà.

–          Anch’io.

Lo dice ridendo come un cretino, non posso esimermi dall’andargli dietro. Finché la voce della ragione non riprende possesso del telefono.

–          Anch’io ve ne voglio, anche se siete due imbecilli. Ma almeno a nessuno può venire in mente di dubitare che sia figlia tua.

 

 

[lotto, m’arzo (tutti i giorni)]

Stamattina.

Non si staccano l’uno dall’altra. Se per qualche motivo lui è costretto a spostarsi, nel giro di un picosecondo è già di nuovo calamitato sulla bocca di lei, che ha l’aria di essere la regina del mondo, ma una buona, che non fa pesare alla plebe il suo privilegio. Tra tutti e due non arrivano a quarant’anni.

A un certo punto, lui allunga una mano e le palpa un seno. Lei si guarda intorno fingendosi scandalizzata e gli appioppa una pacca secca sulla mano. Lui ride.

– Certo che potresti farmi contento, però.

– Te lo puoi scordare.

– Eddai, una bella terza. Duemila euro, ho chiesto.

– Ma cosa hai chiesto a fare, tanto non lo faccio.

Lei ha smesso di sorridere.

– La metà la metto io, è il mio regalo di compleanno.

– Per chi, per me o per te?

– Dai, fammi contento.

– Te l’ho già detto, io sto bene così.

– Ma pensa come staresti bene con una bella terza.

Allunga di nuovo la mano. Lei gliela intercetta e la devia. Gli pianta gli occhi in faccia, seria.

– Ma perché, così come sono non ti piaccio abbastanza?

Lui intuisce il campo minato. La bacia. Non è stupido, per niente. È solo grasso, ma sembra che a lei piaccia così.

***

Ora di pranzo, lungomare.

Una Matiz color amoreiltuocurryèfantasticomavuoinvitarmiacenaotingermi? accosta.

Ne scende lui, ventiqualcosenne, capello aerodinamico, mutanda non esposta, sopracciglio che Mae West manco sa chi sia.

Gira intorno alla macchina e va ad aprire lo sportello per far scendere lei, altrettanto ventiqualcosenne, scarpe guardabili, pantaloni degni di tale nome, capelli che sono un manifesto anarchico contro lo strapotere omologante della piastra.

Dire raggianti non rende l’idea.

Dire emozionati, invece, la rende abbastanza.

Tra il parcheggio e la spiaggia, due banchetti, uno di ricci e uno misto mazzolini di mimose e asparagi.

Lui guarda l’uno, poi l’altro, poi lei.

Sorride fiutando la trappola.

Lei fa una faccia da poker micidiale.

Lui ne fa una come a chiedersi perché non si è messo con quella che guardava Amici.

Tutti e due evitano di guardarsi ancora e cercano di non ridere, riuscendoci malissimo.

Finché lui gonfia il petto, si avvicina al banchetto di sinistra e chiede un bouquet.

Di ricci.

Lei gli salta in braccio e comincia a mangiarselo di baci, poi, quando l’ha ridotto più o meno della metà come fosse una salsa all’aceto balsamico, scende.

Guarda l’altro banchetto.

Sbotta a ridere di gusto.

Ci si avvicina decisa, confabula col ragazzo, torna dal suo nascondendo qualcosa dietro la schiena.

Quando lui le offre i ricci, lei gli spara in faccia un sorriso smagliante e un mazzolino di asparagi.

Attaccano a ridere come pazzi, e con loro tutti gli avventori del ricciaio, i compratori di mimose e i passanti.

Sta’ a vedere che in fondo c’è speranza.

[il gran turchino chiama]

Ho un ottimo senso dell’orientamento. 

Mi si abbandona nella giungla, nel deserto, in mezzo al mare, in un condominio di Kowloon: ne esco senza problemi. Non solo, mi metto pure a dare indicazioni ai viandanti che mi scambiano per una del posto e chiedono dove possono trovare un tabacchino o l’ufficio postale. 
Mi oriento dappertutto.

Dappertutto.

Tranne che in questo cacchio di buco nero.
(e nei paesi il cui il sindaco ha in uggia gli arbitri da quando gli venne fischiato un rigore (nettissimo) contro quando giocava nei pulcini, e da allora si vendica emettendo ordinanze che vietano il posizionamento di cartelli che indichino come tornare in un qualunque posto segnalato su Google maps. Ma questo è un altro discorso)

Sono al quarantaduesimo giro di via Maroncelli. “3 laps to go”, mi avvisa un cartello beffardo fuori dal civico 18. Non vi auguro vi esplodano i pozzi neri di tutto il quartiere solo perchè, con l’andazzo di stamattina, è praticamente certo che succederebbe adesso.

Improvvisamente la facciata di un palazzo si muove. 
Lo sapevo, maledetti, lo sapevo che non potevo essere io, il problema. Queste carogne infami, questi mentecatti dall’animo incancrenito – e no, vivere in un posto demmerda, in questo caso, non è una scusante. Bisogna essere marci dentro, l’anello di congiunzione tra Flavia Vento, Anastasia, Genoveffa e John Doe, per decidere di stabilirsi qui – questa gente arida che non ha altra gioia al mondo se non provocare incazzature al prossimo ha allestito un sistema di edilizia abusiva che permette loro di modificare a sfregio la topografia della zona. Ci passi una volta, e davanti hai una strada. Al giro successivo, al posto della traversa c’è un muro di recinzione. Al giro successivo ancora, la sede della scuola di snowboard (ve lo giuro, c’è, è in via Toti. Mi piacerebbe attardarmi a discutere dell’utilità di una scuola di snowboard in un posto dove il dislivello massimo è di 15 centimetri e l’ultima neve è caduta nell”84, ma vorrei essere a casa prima di notte).

Comunque.

Al quarantaquattresimo giro, là dove c’era l’erba ora c’è una palazzina a tre piani. Brutta come solo le palazzine di queste parti possono essere, brutta da far sembrare il realismo sovietico la culla di tutte le arti. Brutta.

Giocoforza, mi fermo.

Sollevo lo sguardo.

Stesi, al balcone del primo piano, ci sono tre calzini.

Tre.

Mi state prendendo per il culo, io lo so.

Solo il demonio sa quanti cacchio di accoppiamenti fra parenti di primo grado sono arrivati a produrre la generazione che attualmente popola questo quartiere derelitto, ma la letteratura scientifica parla senza possibilità di equivoco di figli con la coda di maiale, non con tre piedi.

Li riguardo, metti mai un’allucinazione.

Sempre tre.

Di colore diverso, ora che li osservo meglio.

Ora che li osservo meglio e scopro che avrei fatto meglio a cecarmi un occhio, pur di non sapere.

Lo so che penserete che son la solita cazzara, ma ve lo giuro sulla mia copia di “Disegni e Caviglia colpiscono ancora” autografata da essi medesimi, sono

uno verde

uno bianco

e uno rosa

Roba da farsi dichiarare guerra da Terranova all’istante.

Non li ho potuti fotografare perché

a) mi son cadute le braccia

b) lo stesso balcone è presidiato medicalmente e chirurgicamente da una tizia, bella come la carcassa di un topo frollato al sole ma in compenso con l’espressione cordiale di un cesso intasato.

L’ultima particella di spirito di out o’conservazione rimasta in sospensione nelle libagioni di ieri in onore della Maga mi suggerisce di tornare indietro. Non è vigliaccheria, continuo a ripetermi, è che chi penserà a Topa se mi succede qualcosa? Chi si ricorderà di pagare il condominio con sei mesi di ritardo? Chi scenderà a portare giù l’umido nel giorno in cui ritirano la plastica?

Ok, va bene, è vigliaccheria.

Inserisco la retromarcia con nonchalance, come se volessi solo controllare se ce l’ho.

E sono

ancora

qui

nel maledetto vicolo del cazzo che non solo si è ristretto improvvisamente, ma ha pure fatto spuntare una serie di maledetti gradini dalle soglie, aggiunto dissuasori e fioriere che prima non c’erano e, dulcis in fundo, storto tutta la baracca in modo da farla diventare una fottutissima curva cieca.

Mayday! Mayday! Mayday!, ripete la radio di bordo.

Non vi chiedo di spianare la zona a cannonate, sarebbe troppo bello.

Basta che mi portiate una birra.

O una capsula di cianuro, è lo stesso.

[airport 80 (voglia, disco, ecc.)]

Arrivo in aeroporto con la grazia della palla di cannone del barone di Münchausen.

Skopjie si è rivelata una città particolarmente ospitale, addirittura più di quanto mi aspettassi. Forse sono macedone dentro, chi lo sa. E sì che furba non sono, al limite contrabbandiera.

(questo con buona pace di chi ogni tanto fatica a inquadrarmi dal punto di vista etnico. Difficilmente mi danno dell’italiana, il che – quando sei all’estero e gli unici connazionali nei paraggi si fanno un vanto di dimostrare la propria appartenenza al genere subumano – torna a vantaggio, è fuor di dubbio. A volte un rigurgito di amor patrio mi spinge a rivendicare puntigliosamente le origini, giusto per sollevare negli interlocutori il dubbio che esistano effettivamente abitanti di quel buffo paese stivaliforme che sanno leggere e scrivere (sorvolo abilmente sul far di conto), comunicare anche senza il supporto audiovisivo di Rutto 2.0, non teledipendenti e capaci – udite udite! – di afferrare senza troppo sforzo concetti astrusi tipo “fila”, “silenzio” e “cestino dei rifiuti”. Di solito ci guadagno occhiate sbigottite seguite immediatamente da grasse risate e proposte di tournée del mio spettacolo comico nei maggiori teatri del posto, che Bill Hicks mi perdoni. Una volta sono persino stata invitata al Convegno Intergalattico degli Autori di Narrativa di Fantascienza, solo che ai partecipanti è andato in cuffia per errore l’audio della traduzione del poeta Vogon che teneva il suo intervento nella sala affianco e non mi hanno più cercato.

Comunque finora le ipotesi più accreditate mi vedono bene come bretone, forse per via dell’età, o nordafricana in genere. Che, voglio dire, passi per i bretoni, poveracci, ce ne saranno di particolarmente racchi anche lì, ma di norma son di aspetto assai piacevole, anche se hanno nomi da compagnia aerea o rimedi per il singhiozzo. Ma giusto un bauscia di provincia potrebbe prendermi per africana. Eppure.

Esselunga del Lorenteggio, qualche anno fa.

Fine luglio. Un caldo pesante e zozzo appena mitigato dagli scarichi delle auto. Nebbiolanum, in pieno oscurantismo morattiano, era ancora ben lontana dal riconoscimento del diritto civile al girare nudi per strada come usa d’estate in tutti i paesi civili. Al confine veniva consegnato un necessaire contenente:

  • n°1 tailleurino al ginocchio, 70% teflon, 30% calcestruzzo, non candeggiare né centrifugare
  • n°1 filo di perle d’ordinanza
  • n°2 caricatori di bigodini calibro 9
  • n°1 tanica di Altolàlsudore, un preparato chimico prodotto dai Laboratoires Mengeles che sigillava le molecole sudoripare e le liberava solo una volta saliti sulla metro all’ora di punta, altro che kamikaze.

Lo spacciavano per set di cortesia, in realtà era un’azione dei servizi leghisti per scoraggiare l’immigrazione.

Forte del mio passaporto diplomatico fenicio, attivo l’opzione Catafotting e vado a fare la spesa indossando l’unica tenuta che il mio organismo tropicale possa tollerare: una djellaba nera che monta sandalo minimo e la solita faccia da culo.

Arrivo in cassa col carrello pieno di taleggio e polenta e mi metto in fila.

Tempo sei secondi, un omino sopraggiunge e mi passa davanti come se non esistessi.

Poche cose mi fanno imbestialire come quelli che saltano la fila.

Carico la tetta destra e gli invio un messaggio telepatico.

Non riceve.

Tossisco in maniera talmente plateale che mi fischiano il fallo di ostruzione dal Maracanà.

Niente.

Gli do un’ultima possibilità prima di silurarlo, mi avvicino e, con la massima educazione consentitami da un istinto omicida al cui confronto il mostro di Milwaukee è una mammola, gli dico: “Mi scusi, c’è una fila”.

Lui chiama a raccolta tutto il disgusto di generazioni di Borghezi (antica popolazione barbarica dedita al brutale sterminio dei neuroni, decimata dalle malformazioni genetiche dovute all’accoppiamento tra consanguinei ed estintasi definitivamente per una banale allergia al Cif Ammoniakal), mi guarda come se, pregustando una scorpacciata di cassoeula, scoperchiasse la zuppiera e ci trovasse dentro una cacca di rinoceronte, e strilla con voce querula:

Tornatevene a fare la spesa nei vostri negozietti luridi!”.

Senza voce querula non rende.

Lo asfalto senza manco pensarci al grido di “per il mercato di San Benedetto, che è più pulito di quel letamaio di casa tua, e per la barba del profeta!”, giusto per non far torto a nessuno)

Stavo dicendo?

Ah, sì. L’aeroporto.

Mi catapulto al metal detector mentre chiamano il mio volo. Davanti a me, due file: una di dromedari stanchi e una di dromedari morti.

La prima mi vedrebbe in decima posizione, la seconda in quinta (e cinque, sei, sette e otto, arabesque!).

Intuisco la trappola.

Temporeggio.

La fila dei morti è completamente ferma in attesa che i parenti dell’ultimo defunto si presentino per celebrare le esequie.

La fila degli stanchi si è appena fermata per un decesso, si aspetta il coroner per rimuovere la salma.

La scritta “now boarding” all’altezza del mio volo comincia a lampeggiare sul monitor.

Il 7° Panzerdivisionen, nel senso di tedesco di cui, a due metri dal suolo, si intravedono (intravvedono? questa cosa va chiarita) le ginocchia, e con una panza tale che pure a dividerla ne resta abbastanza per tutti i presenti, mi toglie dall’imbarazzo e mi sistema d’ufficio nella fila degli stanchi con un colpo di pancreas.

Ottava.

Davanti a me una neopatentata, un vecchio col cappello, una signora fresca di messa in piega, un coatto con le lucette di Kit che con una mano telefona e con l’altra si scaccola, una monovolume con tre seggiolini e l’adesivo “Briciole a bordo”, una trebbiatrice col rimorchio e un camion della spazzatura.

Solo non si vedono i due liocorni.

Sparo alla neopatentata, mostro una foto di Miss Marple nuda al vecchio, sussurro alla signora con la messa in piega che mi pare stia salendo un po’ di umidità.

Quinta.

No, non ho cambiato misure.

Dall’altoparlante arriva l’ultima chiamata per il mio volo.

Scalo in quarta, poi in terza, imbocco l’ultima curva della serpentina in piena accelerazione lesmica, il rimorchio della trebbiatrice sbanda, la supero, comincio a sfilarmi la cintura, dall’altoparlante una voce spigolosa pronuncia il mio nome seguito da volgari insinuazioni su come starei impiegando il tempo invece di presentarmi all’imbarco, il camion della spazzatura rientra ai box, accelero ancora, sono in testa, sento i jeans che scivolano ma non posso tenerli su perché ho le mani impegnate a spingere dentro la valigia, faccio per oltrepassare lo scanner, “BOARDING CARD!”, mi intima la guardia, “IT’S INSIDE!” urlo di rimando, aggiungendo a voce non troppo bassa “eccheddick, you fucking cretin, me l’ha controllata la tua collega venti metri fa, altrimenti non sarei qui”, “BOOTS!” si vendica la guardia, “ARE MADE FOR WALKING!”, la so, cazzo ti credi, mica mi freghi così, “WHAT??”, what the fuck, me li tolgo anche se non suonano, la voce dall’altoparlante chiama “Passenger Outsider please plant of chinchinsk and move your fat ass to gate 16 for immediate boarding”, e poi.

E poi succede che mi distraggo e subentra il pilota automatico.

Sarà capitato anche a voi.

(insieme a una famiglia problematica, forse, ma tanto espansiva)

Ci sono gesti che il cervello abbina automaticamente a certe attività, è una cosa elementare, il cilindro rosso nel buco rosso, premi “installa” e il coso lì fa tutto da solo.

Spogliarsi è uno di questi.

Spogliarsi in fretta lo è ancora di più.

Vaporizza indumenti”, nella mia mente ferrodastiroavulsa, è un processo che presuppone intensa attività ludica nel giro di tre picosecondi. Se viene innescato, le sinapsi si concentrano sullo zuccherino e perdono di vista il resto, mentre le mani vanno avanti da sole il più velocemente possibile, secondo un protocollo stabilito.

– STOP! STOP! THIS IS NOT NECESSARY!

L’urlo della guardia mi blocca con le braccia per aria e la maglia sfilata per tre quarti. Eppure la sequenza era giusta: cintura, stivali, maglia, a seguire jeans, reggiseno e mutande.

Oddio, le mutande.

So cosa state per dire, invece ce le ho.

Sul treno per l’aeroporto mi ha chiamato mia madre.

– Stai rientrando?

– Sì, mamma.

– Vieni a cena, quando arrivi?

– No, mamma.

– E perché?

– Non lo vuoi sapere, mamma.

– Che il Signore abbia pietà di me e mi porti presto al suo cospetto, visto che in questa vita non mi ha dato la gioia di una figlia amorevole capace di trovare il tempo per star vicina alla sua povera madre malata prima che sia troppo tardi. Mettiti un paio di mutande pulite prima di salire sull’aereo, sai mai faccia un incidente.

Quindi sì, per forza ho addosso delle mutande.

Al rovescio, ça va sans dire.

Turchesi.

Trasparenti.

Col pizzo verde acqua.

E un fiocchetto.

Vorrei dire “improponibili”, ma mentre sto lì con le braccia ancora incastrate nella maglia sento che i jeans, privati della cintura, cedono alla forza di gravità, ed ecco che dette mutande, ahimé, si propongono.

Dall’altoparlante esce solo “Jesus Christ, Sider”, ma non credo vogliano convocarmi per un’audizione.

Approfitto dello smarrimento collettivo, salto in groppa a Panzer, lo frusto con la cintura, che si capisce che gli piace, e lo lancio al galoppo.

Non perdo il volo.

L’aereo non cade.

Sta a vedere che ‘ste mutande improbabili portano pure fortuna.

[tits and chips]

Passi per le mutande, che sono creature mitologiche.

Tipo gli unicorni, ma non propr…

Cioè, il corno non si inf..

Voglio dir…

No, asp…

Ferm…

Fatemi parl…

AAAAAAAAAAAALT!

Pappalardo vostro senza ritorno.

Le mutande. Le abbiamo sempre ignorate alla stragrande, perché dovremmo iniziare a preoccuparcene ora?

Il record olimpico pertinente, lancio della, è già detenuto dalla nazionale di Villa Balorda, sia nella specialità indoor che in quella outdoor.

I tempi impongono al massimo un cauto ottimismo, tirarle per aria in segno di giubilo si configura come gesto sconsiderato.

(quindi da realizzare immediatamente, ma questo è un altro discorso*).

Mutande.

Basta con la vostra ingerenza nella sovranità delle nostre pudenda.

Mutande.

M’avete provocato, e io me ve magno.

(no, grazie, il cappello mi rende nervoso)

Mutande.

C’è chi dice siate come le password, e infatti tiene la stessa da quando ancora schiacciava la barra del Vic20.

Mutande.

L’ultima volta che mi son resa conto che forse era il caso di riassortire il mio parco medesime sono entrata in un mutandificio sovrappensiero, senza rendermi conto che era la terza domenica di dicembre. Ho comprato queste:

[immagine di mutande improbabili che verrà caricata appena arrivo su un fisso]

solo perchè ho pensato che soffocarmi cacciandomele in gola sarebbe stato più pietoso che morire di stenti aspettando di uscire da quell’incubo che neanche Bosch dopo la peperonata di mezzanotte, quello che alcuni ottimisti beoti si ostinano a chiamare col termine improprio di “parcheggio”.

Mutande.

Servite solo per una cosa.

E difficilmente penso a scrivere, mentre succede.

Reggiseni.

Voi sì che siete gente seria.

Il mio modello ideale è in forma di mano, possibilmente doppia, avvolgente e attaccata a una solida struttura portante. Non ho particolari preferenze tra il tipo a sostegno frontale, meglio se dal basso, e quello invisibile che sbuca da dietro e si chiude sul collo. O meglio, ne ho, son sicura, è solo che per certe cose ho una memoria pessima, e c’è un solo modo per rispolverarmela.

L’unico problema è che accade talvolta che questa soluzione reggisenica non sia praticabile. Non parlo di quando capita di correre appresso all’autobus, in quel caso basta sincronizzarsi, che ci vuole, hop hop, è come il bob a due, solo con una o in più. No, è che magari sei in riunione, o a un colloquio di lavoro, o stai tenendo una lezione a giovani virgulti, e improvvisamente li vedi distratti. Non è che puoi interrompere tutto e chiedere “Mi si vede il reggiseno?”, anche se il reggiseno in questione è lì dietro serio e compunto, concentrato nella sua missione, senza dare minimamente nell’occhio, al limite una pausa ogni tanto per un sorso d’acqua.

Che poi, tutta questa attenzione per una parte del corpo la cui unica funzione è quella di scacciapensieri. Funzione nobile, eh, per carità. Ho visto pensieri allontanarsi alla velocità del suono e disperdersi al largo dei bastioni di Orione financo dalle menti più eccelse, in presenza di quelle due cose buffe e morbide sospese alle clavicole. Gente che fa tutt’altro mestiere scoprirsi una vocazione innata come impastatore/trice, senza riuscire ad arrivare mai al punto in cui la ricetta dice “quando l’impasto comincerà a staccarvisi dalle mani”. Persone con una cultura anatomica solida e incontestabile parlarti guardandoti negli occhi ai lati dello sterno.

Manco fossero due erogatori di margarita alla spina. Per quanto l’happy hour sia garantita ugualmente.

Comunque a queste due robe che viaggiano con me come bagaglio a mano ci sono affezionata. Certe sere ci ritroviamo intorno a un tavolo, davanti a una bella doppio malto corposa, io, loro e la forza di gravità. Quella, con le orecchie basse e l’aria impotente, borbotta che non lo fa apposta, e noialtre fingiamo di crederle. Poi le mandiamo il conto. Delle birre e del reparto corsetteria, e ogni volta quella va a pagare brontolando che le costerebbe meno mandare una sonda a spostare l’orbita del satellite dell’ammmore per farcele star su come a vent’anni.

Ha ragione.

(Il dottor Divago in astanteria, ripeto, il dottor Divago in astanteria)

La fredda cronaca.

Non è stato un gesto compensativo. La mia passione per lo shopping è seconda solo a quella per gli inviti a pranzo di mia cognata. La morte per impiccagione è al terzo posto nella mia lista dei passatempi preferiti, per dire.

Ero reduce da una mattinata ai confini della realtà, ma – giuro – non sono entrata nel negozio in preda a impulso riparatore. Non dico “possino cecamme” perchè non mi pare corretto nei confronti del cane-guida.

No, sono entrata mossa dalla necessità. Tutto questo usare i reggiseni come bavaglio per i detrattori della mia ars gastronomica è logorante. Per i reggiseni. D’altra parte, le museruole per terranova le fanno solo in colori chiari, e a me i colori chiari mi sbattono.

Quindi, giocoforza, mi prendo un pomeriggio libero ed entro.

Son lì da circa due ore che annaspo fra quelli papabili quando dalle mie spalle, su un espositore, si proietta un’ombra.

– Posso aiutarla?

– Bghfazsgnaplafurlv.

La signora mi leva gentilmente di dosso tre quintali di pizzi e ferretti e mi aiuta a riemergere nel mondo dei suoni intelligibili. Un occhio le si illumina di rosso. Mi scansiona il busto, controlla le misure dei reggiseni che ho scelto e fa un segno d’assenso.

– Se mi dice quali di questi vuole provare, glieli avvicino nel salottino di prova.

– Tutti.

Sbianca.

Non aggiungo “Sbernie” perchè ho una dignità, in qualche scatolone in cantina dai miei.

– Gliene posso far provare al massimo quattro per volta…

La voce le muore in gola.

– Sarà una lunga notte.

Mi consegna i primi quattro con le lacrime agli occhi.

Dopo dieci minuti si affaccia nel camerino con la faccia distesa di quella che è corsa a chiedere il trasferimento d’urgenza al reparto casalinghi e le hanno risposto picche.

– Come vanno?

– Male.

– Come, male? Faccia vedere.

Spalanca la tenda e si trova davanti “La misura è colma”, incazzatura su pizzo raschel in cui Picasso ritrae una femmina di stegosauro che lotta contro il lato oscuro della forza. Il seno sinistro dietro l’orecchio e quello destro in fondo al gomito esprimono mirabilmente l’inadeguatezza della natura di fronte allo strapotere dell’elastan.

– Le sta benissimo, mi creda.

A momenti mi cava un occhio col naso. Nonostante il sogno della mia vita sia essere esposta al MOMA, la convinco a portarmi i quattro successivi. Finisco per strapparne due a morsi, col terzo ci posso saltare la corda, il quarto mi vale un’offerta di lavoro presso Le Boukkake Elegant Diner Club Privé di Tangeri. Attendo con pazienza che la signora si manifesti con la terza batteria.

Attendo.

Scorrono i titoli di coda di “Ghandi”.

Attendo.

Bezuchov guarda Mosca bruciare.

Attendo.

In un angolo del camerino, quelli che inizialmente parevano pezzetti di carta si rivelano come frammenti delle ossa calcinate dal neon di chi, prima di me, ha atteso il ritorno della commessa.

Attendo.

Un movimento dietro la tenda mi sveglia di botto. Ma è solo il postino che mi consegna una cartolina che la mia pazienza mi manda dalle isole Fiji.

Smetto di attendere ed esco a passo di marcia a prendermi il resto dei reggiseni da misurare.

Rientro dopo un secondo.

Qualcosa mi dice che le politiche aziendali del noto, spocchiosissimo magazzino potrebbero non gradire che i clienti circolino seminudi per il piano dell’intimo.

Houston.

Da animale poco avvezzo allo shopping, ho scelto l’abbigliamento meno adatto a un’alternanza rapida metti-togli-metti. La sola idea di rivestirmi per poi rispogliarmi mi fa venire voglia di fare harakiri con una gruccia. D’altra parte, una scarsa propensione silviopellica mi induce a evitare di finire i miei giorni in quel camerino, nonostante la superficie calpestabile sia superiore a quella di casa mia.

Nel frattempo, un piacente trentaqualcosenne vaga per il reparto cercando nella visione dei perizoma qualcosa che lo trattenga dal tagliarsi le vene mentre la sua fidanzata si prova sei piani di merce esposta, comprese le tovaglie, le tende, le scarpe delle commesse e gli estintori. Ed è a lui che appare in tutto il suo splendore silvestre una strana creatura spettinata, che emerge furtiva dai camerini coperta solo da un paio di collant coprenti avanzati alle Kessler, stivali e una kefia, per grazia della dea involta intorno agli obiettivi sensibili e non al collo. Intorno, lo stesso vivace viavai che segue a un’ecatombe nucleare.

– Mi scusi, ha visto la commessa?

La creatura aliena è, quantomeno, compita.

– Guh?

L’ultimo umano rimasto, ed è stato cresciuto dagli scimpanzè.

– Io amica. Mercante di copripopi-popi, dove lei?

Popi-popi fa fare contatto ai fili. Mima e onomatopeizza a sua volta per confermare.

-Tanti copripopi-popi colorati. Tu visti?

Egli si limita ad indicare, col dito e altre parti del corpo, il punto in cui la kefia non arriva a celare alla vista tutto quel che dovrebbe.

– E.T. Telefono. Popi.

Tira fuori dalla tasca la sua laurea in ingegneria nucleare e inizia a batterla sul cranio di un acaro della moquette in un crescendo straussiano.

Sono molto impressionata, ma ho una missione da compiere. Individuo il cumulo dei miei reggiseni. Ne afferro una bracciata. Nel movimento, la kefia scivola.

Ed è in quel momento che la voce di un crotalo sibila alle mie spalle:

– Carlo, cosa cazzo stai facendo?

Carlo sta facendo quello che interpreta la slide del blocco dello snodo mandibolare a un simposio di otorinolaringoiatri.

Ricompare anche la commessa, con la faccia cordiale di quella che ha chiesto il trasferimento immediato al reparto Miniere di zolfo e le hanno risposto picche.

– Cosa fa qui? Le ho detto che glieli avrei portati io!

– L’aspettativa media di vita è in crescita, ma sono già oltre la metà, signora mia.

Lo affermo con tutto il sussiego consentitomi dall’avere le chiappe al vento e una kefia intorno alle caviglie.

Ma tanto Commessa e Crotalo son distratte dallo gnomone del povero Carlo.

– Segna mezzogiorno. Sono le tre e venticinque.

– Non me ne parli, continua ad andare indietro e non ha i minuti, non le dico il casino quando devo usarlo come timer per la pasta.

Tiro su con un colpo di tacco la kefia e mi dirigo verso il camerino strisciando lungo le pareti. Solo che questa stanza non ne ha più, al loro posto alberi infiniti e piantagioni di espositori, un gancio dei quali mi si conficca sotto una scapola. Non è il dolore, a farmi scivolare di mano i reggiseni con cui mi coprivo, è la forza con cui invoco san Patroclo vergine e sindaco.

Il tenero Carlo fa cavallerescamente per raccoglierli, ma viene congelato da un urlo.

– SITZ!

Chen e l’occidente intero scappano uggiolando.

Lui muove solo gli occhi. Non ci sono finestre da cui buttarsi.

Un, due, tre stella ci fa un sontuoso pippone: quello bloccato a metà dal colpo della strega, io sansebastianizzata ma senza l’allure da icona gay, Commessa, il cui marito si scopre chiamarsi Lot.

Crotalo afferra il fidanzato per le orecchie e lo trasporta via come un’urna cineraria, dando così un senso nuovo all’espressione “le mie orecchie non sono maniglie”.

Due ore dopo, trascorse per lo più a maledire la non univocità delle modellature, gli incroci magici, i cedimenti strutturali, il destino cinico e baro che fa levare dalla produzione tutto quello che mi va a perfezione, dalla Desirée Algida alla Simone Pèrele, e il comune, fottutissimo senso del pudore, quando sto seriamente pensando di legarmi sul petto due orologi a cucù e risolverla così, da un cumulo di cadaveri, emerge un vincitore.

Non credo ai miei quattro cupi occhi.

– Ah, è l’unico non in saldi. Reni o cornee?

Se rinasco.

Oh, ma se rinasco.

L’omologazione è il male ma, se rinasco, giuro che chiedo due tette di misura standard.

Sarò l’unico scarabeo stercorario con una banalissima terza non differenziata e la tessera fedeltà di Tezenis, e sarò felice.

[the omen]

– Ciao, figlia mia.
Il tono è quello da grandi occasioni: l’assassinio di Kennedy, i funerali di Berlinguer, la retrocessione dopo lo spareggio col Piacenza. Flebile, poco più di un sospiro estorto a forza dalla necessità di informare del dramma, con un retrogusto di devastazione e mestizia, classico dei parenti del defunto che cercano di mantenere una parvenza di compostezza mentre sfilano i condoglianti.
Roba da far accapponare la pelle, gelare il sangue nelle vene e trasformarlo in sorbetto.
– Mamma, cos’è successo?
Mentre lei prende fiato, io perdo dieci anni di vita. Per distrarmi, scansiono il tragitto più breve dal posto in cui mi trovo a tutti gli ospedali della città.
– Mamma?
A parte un sommesso tirar su col naso, silenzio.
Cazzo.
Non si è mai pronti a certe notizie.
– Mamma, dimmi dove sei, sto arrivando.
– NO!
– Ma come n…
– No, no, almeno tu no!
Sollievo. La possibilità che un gruppo di terroristi, dalla strada, abbia lanciato un fiala di ebola bubbonica nel soggiorno dei miei è, obiettivamente, piuttosto remota.
E incazzatura. Sarai pure legalmente mia madre, ma il diritto di beccarti un vaffanculo cosmico senza passare dal via per la sincope che mi hai fatto prendere non dovrebbe essere messo in discussione da nessuno.
– Ti ricordi la vigilia di Natale?
Come potrei, come potrei, amore mio. Come potrei dimenticarla. Per una buona mezz’ora mi son vista farmi a piedi 15 chilometri di tangenziale alle due di notte per tornare a casa.
– Adesso, oltre a Cognata e Nipote, stiamo male anche io, papà e Zippo. Ma male, eh!
Fin da ragazza, mia madre si è dimostrata portata per le lingue, unico carattere ereditario tramessomi per il quale non finirò mai di ringraziarla.
Ma la sua passione è sempre stata la medicina. Come le si illuminano gli occhi quando racconta di quando veniva chiamata a portare la cassetta del pronto soccorso e, ragazzina, assisteva il medico di Campo Pisano mentre rimetteva insieme minatori esplosi, non avete idea.
Aggiungeteci una certa malcelata passione per il melodramma.
Violetta muore di un banalissimo virus intestinale (perchè la tisi è robetta da mammole), sì, ma in tre atti, tra mille lamenti e un allestimento degno di “Aida contro le sette piaghe d’Egitto”.
Nessun dettaglio clinico è troppo intimo o disgustoso per non essere descritto con dovizia. Per fortuna ho affinato la controtattica, dal terzo minuto in poi mi isolo ripetendo a memoria le battute di “A piedi nudi nel parco”. L’intelligenza della mia espressione ne risente, ma almeno mi do una chance.
Fin quando la sintomatologia viene sviscerata del tutto e arriva la pausa.
No.
Nononononononono.
Mamma.
Ti prego.
Non farlo.
– Tu stai bene?
Sono in sezione. Insieme a me un drappello di colleghi non del tutto entusiasti di dover designare per il turno interfestivo. La maggior parte di loro supera i sessant’anni e, arbitralmente, mi ha visto nascere. Non posso andar lì e chiedere che mi autorizzino il gesto apotropaico.
Glisso.
– No, perchè comunque la poetica del Tasso è fortemente sopravvalutata.
– Speriamo che almeno tu la scampi, eh.
Amiche. Amici. E’ stato un piacere.
Per il resto, non posso che rimandarvi al mio testamento.

[automatic for the people]

“bello! allora se non ti dispiace faccio anche io un Paolo sul divampò mentre mamma e gli altri giocano a veicoli.”

“Tre secoli fa, i pescatori scavato nicchie nella roccia vulcanica delle scogliere di Santorini. Ora che sono stati trasformati in grotte per ninfe del mare in bikini e miliardari duro corpo che li amano. Questa infame resort tentacolare si siede in cima a una rupe scoscesa in isolamento assoluto. Indugiare sotto il gazebo e poi l’anatra nella suite per un bicchiere di vino e un sigaro. Quando l’abbronzatura è fino al tabacco da fiuto, aggeggi sono fuori in vigore. Mente il fumo del sigaro, però.”

“L’etica contromano della paralisi creativa è bugiarda come un tour operator che consiglia un last minute negli intestini della certezza. E’ come scegliere di non scegliere. Trovarsi dentro uno sguardo caricato a salve che punta direttamente nel buio della verità, nella scarpiera di un serpente.”

Ne uccide più la penna che la spada è roba vecchia.

Superata.

Obsoleta.

Può andar bene giusto per chi subisce il fascino retro di Guy Williams e dei tre moschettieri.

Nossignori, il futuro è qui, è adesso, è nelle armi automatiche.

Se non ci fosso, bisognerebbe invenzioni.

(scova l’intruso e vai con lo swing)

http://www.youtube.com/watch?v=xwV5iOcHf8k