Uno dice, le rivelazioni.
Pensi di sapere tutto di una persona, ma proprio tutto.
Tuttotuttotuttotutto.
Ci sono, quelle persone.
Poche, certo, ma ci sono.
Pochissime, d’accordo.
Meno di pochissime, ok, però
Per cortesia, ce la diamo una mossa a inserire il comando
<piccoli lettori pibinchi ammutolish now>, che poi perdo il filo?
Grazie.
Ho perso il filo.
– Oh, no! Una mandria di zebù imbizzarriti sta per piombarci addosso al galoppo!
– Paura, eh?
Persone di cui pensi di sapere tutto, si diceva.
E invece.
A volte colpiscono come uno schiaffo, le rivelazioni.
Altre volte lasciano sbigottiti e senza parole. Ti precipitano in un abisso di destabilizzazione, dal quale – solo se sei fortunato – riesci a riemergere aggrappandoti all’ombra di un’opportunità che intravedi da sotto, come fosse lo scafo di una scialuppa di salvataggio.
– Se l’arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovisdestabilizzasse,vi desarciviscodesterazzi…
POW!
GLUB!
– Ma ce l’aveva quasi fatta!
– Già, c’era il rischio che pur nuotando mentre blaterava si salvasse, ho dovuto spararle.
Questa è la breve storia di una di quelle volte lì.
Le seconde, sì, le seconde volte, Brigate Pibinche adorate del sacro cuore di Sider, che ve possino.
Da un po’ di tempo a questa parte posso dire di essere smodatamente felice.
(provate a digitare “Sider smodatamente felice” nella finestra di ricerca di Google Translator e fateglielo tradurre in una lingua qualunque. Poi fateglielo ritradurre in italiano. Il risultato finale (oltre a farvi diventare piuttosto popolare nel rutilante mondo delle oneste ragazze slave – letto all’italiana, non all’inglese – interessate di conoscenza, sincero affetto e relazione stabile e disinteressata con bello uomo di Italia, anche niente bello fa uguale, io manda di foto, tu anche manda di foto, meglio se in formato .iban), dall’afrikaans allo zurrustano, sarà immancabilmente “Sider è una pazza incosciente”. Questa è la dimostrazione scientifica definitiva che Google Translator è unammerda e io sono smodatamente felice.
Per riequilibrare la situazione, un dio cattivo e noioso appreso andando a dottrina il primo giorno ha creato le poste, il secondo giorno l’ufficio di collocamento, il terzo giorno ha creato il primo del mese e il quarto ha tuonato dalla sua villa alle Cayman:
– Sider!
– Ronnie, guarda, non è il momento. Nel tentativo fallito in partenza di riequilibrare la mia smodata felicità, una congiunzione astrale che non scopa abbastanza ha deciso che oggi, primo del mese, accidentalmente quello di aprile, dovessi recarmi sia alle poste che all’ufficio di collocamento.
– Non rivolgerti a Me in questo modo, sa’?. Congiunzione astrale lo dici a tua sorella, sono io che ho deciso che.
– Ma se sei morto.
– Maledetto Guccini, non dovevo perderlo a carte con Lucifero. Lucifero bara. Hahahaha, morto, bara. L’hai capita?
– Cristo, pietà.
Assemblea: Cristo, pietà.
(in piedi)
Se le poste rappresentano, nell’immaginario collettivo, l’ultima fermata prima di lanciarsi nel Grand Canyon con tutta la Thunderbird, una sorta di zona franca in cui qualunque abbrutimento è liberalizzato e anzi, atteso, in cui improbabili tacchi 15 offendono il decoro urbano anche senza swarowski, figurarsi con, push-up Innocenti e cotonature da far dare all’alcool tutta la famiglia Ewing compresi i cavalli convivono senza che nessuno se ne adombri con ciabatte splatter, barbe incolte, eau d’inceneritoir e pantaloni del pigiama punibili con un’ammenda da 50 a 500 euro a seconda che vi siano esposti o meno infanti, cardiopatici e donne in gravidanza
-E miga si vede chedè un pigiama.
– No, certo, potrebbe pure passare per una tuta da ginnastica.
– Lo vedi ghe già ne sai.
– Lei è stato azzurro di sciatting alle Olimpiadi dell’80, riconosco il calzino di spugna. Immagino che anche se non gareggia più a livello agonistico la scaramanzia sia dura a morire.
se le poste rappresentano questo, dicevo, l’ufficio di collocamento è ancora un luogo dove invece la dignità umana trova un barlume di conforto. Le ultime tracce di aggressività si diluiscono nella rassegnazione, si aspetta il proprio turno per ore senza dare in escandescenze. I più giovani (pochi) si guardano intorno perplessi, i più grandi hanno per lo più l’aria di quelli che ancora non si capacitano di esser finiti lì. Nessuno che paia appena sceso da un carro bestiame o uscito da un cast del Grande fratello, come se presentarsi in ordine, agli altri, ma soprattutto a se stessi, rappresentasse l’ultima ancora di salvezza mentale a cui aggrapparsi per non perdere di vista il fatto che. Tutti, indistintamente, si rivolgono agli altri in maniera educata, se non cordiale. Alle poste, la signora visibilmente incinta che è appena entrata avrebbe fatto in tempo a partorire, svezzare il pargolo, comprargli l’astuccio e il diario dell’Uomo Ragno e vederlo arruolare nella Legione Straniera, tutto in piedi, prima che a qualcuno venisse in mente di cederle il posto. All’ufficio di collocamento non ha neanche portato dentro il secondo piede che si son già alzati in sei.
Un posto normale, insomma. Di quelli che non fanno audience. Persino gli uscieri non riescono ad essere convincenti nella stronzaggine che il loro ruolo impone per contratto, e gli impiegati, consapevoli di quanto poco sano sia ciondolare come dei perditempo rubastipendio sotto gli occhi di un’orda di anime dannate assetate del medesimo, fanno del loro meglio per guadagnarsi la pagnotta.
Più o meno.
Dopo neanche due ore, sul pannello luminoso esce il 992. Metto il segno al libro, tiro fuori i moduli, mi alzo, mi giro e mi rilasso. Niente scatti da primo giorno dei saldi, ma il galateo dell’ufficio di collocamento prevede di non imporre ai propri compagni di sventura nemmeno un secondo ulteriore di attesa perché non ci si è premurati di prepararsi per tempo. Come scatta il mio numero, un ragazzo in giacca di tweed verde scuro prende il mio posto e va a sgranchirsi nel campo per destinazione.
– Di cosa ha bisogno?
– Aggiornamento dello stato di disoccupazione.
Mille parole in un unico sguardo reciproco. Meglio del bluetooth. L’impiegato prende il mio fascicolo e ne infila un bordo sotto la tastiera per copiare i dati. Si ferma quasi subito.
– Sider con il th?
Non so se temere di non capire o di avere appena capito. Nel dubbio, basisco.
– Prego?
– Il suo cognome, Sider. Si scrive con il th?
Il mio sopracciglio sinistro assume non già la posizione d’urto, ma quella di un perfetto accento circonflesso.
– Per quale motivo dovrebbe?
– Ha un suono straniero.
Giro lo sguardo intorno alla ricerca della telecamera nascosta.
(ormai è tutta roba stravista, ragazzi, via, inventatevi qualcosa di nuovo)
Lui mi scruta severo da sopra gli occhiali. È un impiegato scafato e coscienzioso, lui, conosce le lingue, ha viaggiato. Nel tempo libero insegna recitazione a Kevin Spacey. Non lo coglierò in castagna.
– Con la d normale, quindi. Niente th.
– Con la d normale, certo.
– E beh, lo dice lei, “certo”.
– Sono moderatamente titolata a poterlo dire.
– Sicura.
– Sicura. A noi i punti di domanda ci fanno schifo.
Il fatto che il mio nome e cognome sia scritto in scontatissimi caratteri latini e perfettamente leggibile sul modulo da cui sta copiando non sembra convincerlo, ma si adegua.
Non del tutto, evidentemente.
– Ah, ma aspetti, questo è il nome d’arte?
Non riesco a trattenere un sussulto di sorpresa.
– Mi perdoni?
– Dalla scheda risulta che negli ultimi otto anni ha lavorato nel settore spettacolo. È un’artista, quindi Sider è il suo nome d’arte.
– Mi fa piacere che anche lei consideri arte l’haute cuisine, così come mi lusinga sapere che sul mio conto circolino anche attestati di stima, per quanto, lei m’insegna, molti nemici, molto onore. Comunque no, come vede dalla scheda sono un tecnico. Niente nome d’arte.
Si gira di poco alla sua destra in modo da trovarsi perfettamente di fronte a me, ruota le mani e unisce le falangi.
– Veramente dalla scheda lei risulta sì, tecnico, ma anche artista.
Sottotitolo: chi pensavi di fregare, cocca? Io sono un precisino.
(ragazzi, io ve lo dico, se non vedo il girato e il montaggio definitivo non la liberatoria non la firmo)
– Al di là del fatto che quello che doveva essere un ordinario aggiornamento dello stato di disoccupazione stia virando pericolosamente verso il tentativo di estorcere un qualche tipo di confessione che non riesco a immaginare, e ringrazi che siamo ad aprile anziché a dicembre, le finestre sono ben chiuse e in ogni caso ci troviamo al piano terra, altrimenti me la sarei già data a gambe, è vero che in venticinque anni di attività ho collezionato una serie di esperienze professionali quanto mai disparate, ma le pare che non sarei in grado ricordarmele?
Socchiude gli occhi fiutando il sangue.
– Beh, guardi, se la mette così, i casi son due: o lei ha la memoria corta, oppure qui qualcuno ha dichiarato il falso. Un falso su cui lei, a quanto vedo, ha percepito un sussidio di disoccupazione in precedenza. Che potrebbe non aver molta voglia di restituire allo stato. Quindi provi a far mente locale sulla sua attività artistica.
Ohibò. Qui si fanno le cose in grande. Intravedo già palme d’oro e orsi d’argento. Che peraltro si specchiano nel mio curriculum vitae a prova di macchia, ma se sul copione c’è scritto “la comparsa fa mente locale”, la comparsa fa mente locale.
– Attività artistica, lei mi dice. Parliamo di quella professionale, immagino che la danza classica da bambina, l’esame di ammissione al conservatorio, i cori allo stadio, la natura suicida dipinta per mia madre alle medie e i gran pezzi di teatro davanti alle pattuglie della stradale non rilevino. Ho disegnato molto, questo sì. Ma è stato molto più tempo fa, almeno tre pagine indietro rispetto a quella che ha davanti.
– Lei è sicura, vero?.
Lo dice torcendosi le mani in un’estasi di compiacimento, il figlio naturale di Gargamella e di Bruno Vespa che pregusta il momento in cui scoprirà il plastico del fungo dove è stata assassinata Puffetta.
– Lo sono anzichè no.
– Eppure mi conferma di essere la signora Sider Out, nata a, il, residente in Villa Balorda, comune di Plutone, codice fiscale SDRTOU69H56X911Y, metta la mano sulle pagine gialle e dica “lo giuro”.
Ho fatto cose più assurde.
– Guardi qui.
Gira il monitor dalla mia parte.
Leggo.
Apro la bocca.
La richiudo.
La riapro.
Ok, la mia mobilità orale non è compromessa e può dare ancora molte soddisfazioni.
Però.
Però.
Scorro la scheda. Nel corso degli ultimi 25, forse 26 anni mi son ritrovata a fare una quantità di lavori più o meno probabili. Sono stata una speaker radiofonica, una spacciatrice di volantini pubblicitari, un’insegnante a ripetizione, una giovane promessa del design internazionale, una consulente d’impresa pagata a peso d’oro, una bracciante agricola, un’assistente di direzione ostinata e contraria, una sarta di compagnia, un’operatrice di call center, una responsabile di produzione, un’operaia metalmeccanica, una tour manager, un’attrezzista, un’addetto gare, un’amministratrice di compagnia, una traduttrice, un’autista, una costumista e un’interprete più o meno simultanea. Quello che non sapevo, e che mai avrei immaginato, è di essere stata, per due mesi, nel 2008
– Un’artista di varietà. Ha visto che avevo ragione?
– Mi rendo conto che potrà sembrarle losco e abusato, ma se le dico che lo sono stata a mia insaputa mi crede?
Mi guarda. Da cima a fondo. Non so se lo punga pure vaghezza di farmi girare, ma grazieadio non lo fa.
– Sa che non lo so? Di getto risponderei di no, ma lei mi dà l’idea di essere una piena di sorprese.
Me ne vado prendendolo come un complimento, canticchiando
Sono un’artista di varietà
che varierà finchè la vuoi seguire
non ti disturberà
mentre l’usciere mi chiude la porta alle spalle scuotendo la testa.