[loredanamonamour]

Blogger ammodo, esse esistono.

Brillanti eppure composte, il giusto equilibrio tra impegno e ironia. Hanno voce in capitolo, loro è la capacità di orientare opinioni e la gloria nei secoli.

Le blogger ammodo sono organizzatissime. Nessun evento è mai troppo interessante da distoglierle dalla loro eccellente preparazione e pianificazione. Non subiscono il fascino degli zebù di passaggio.

Le blogger ammodo non si ritrovano alle tre di notte nel parcheggio deserto del Carrefour a chiedere educatamente  “mi perdoni, siete chiusi?” a una serranda che crede di avercela solo lei da quanto poco si degna di rispondere, per poi finirla seduta su un cordolo a filosofeggiare con un idrante in merito alle ordinanze comunali che  impongono agli esercizi commerciali orari di apertura sì curiosi.

Le blogger ammodo non eccedono. Signore in salotto, puttane in camera da letto (cosa combinino in cucina non mi è dato saperlo, sulla porta c’è una vetrofania con la mia faccia e la scritta sotto “io non posso entrare”). Sono anticonvenzionali, certo, ma con metodo.

Le blogger ammodo non si compiacciono di essere signore quasi (quasi) sempre e puttane in macchina, in ascensore, nell’ingresso, in camera da letto e sopra il frigorifero. E di restare timide, nonostante tutto.

Giocano da titolari nella nazionale delle parole, e spolverizzano i propri discorsi di turpiloquio q.b. con la leggerezza d’un battito d’ali trillesco. Giusto un pizzico, quel tocco di colore speziato, da ragazzacce, che conquista.

Le blogger ammodo non – ripeto, NON – la finiscono a far la lotta nel fango con gli antenati più cari del barattolo di pesto alla rucola urlando come spartani incazzati (che è una cosa che alle ormai tre e mezza di notte agevola i rapporti di buon vicinato), e non insinuano che il santo patrono del sottovuoto abbia ottenuto il posto dopo essere stato visto alzarsi la sottana, la sottana fino al.

Le blogger ammodo i barattoli li spalancano con un battito di ciglia. Non hanno bisogno di  pregarli in aramaico coi sottotitoli in ugro-finnico, di saltarci sopra, di blandirli promettendo loro le 72 uri del paradiso del barattolo, di centrifugarli, di bussargli sul coperchio con gli occhi da TSO bisbigliando “Weeeendyyyyyy!”, di uscire e rientrare con una motosega accesa, di scagliarli contro il muro o di minacciare di regalarli alla cognata. E non abbandonano la trattativa con fare volpuvizzante sostenendo che tanto non ne avevano mica voglia di un toast al pesto di rucola e marmellata di pere.

(non è un’idea mia, ne parlava già l’Artusi)

(è la cucina molecolare)

(è un’esperimento della NASA)

(è l’epistemologia che mentre sta al telefono scarabocchia F = v/p”, laddove f sta per frigo e vp per vuoto pneumatico)

(ok, è un’idea mia)

Le blogger ammodo non hanno MAI una fame da muratore, hanno più…voglia di qualcosa di buono. E non si mettono a rovistare come facoceri a rota per poi scoprire – in orari in cui persino le pizzerie cinesi sono chiuse da ORE – che, tolto il maledetto barattolo,  in casa, di commestibile, ci è rimasto solo l’anitra wc e mezzo tubetto di maionese scaduto nell”86.

Le blogger ammodo sono pettinate.

Sempre.

Una possibilità diversa, semplicemente, non esiste.

(grazie al cazzo, mi direte: in nomination come Migliori Madrine Non Protagoniste, da una parte Flora, Fauna e Serena. Dall’altra Er monnezza, Medusa e Marylin Manson. Scovate le 19 piccole differenze e non mi venite a dire che i sorteggi non son truccati)

Le blogger ammodo non si sentono inadeguate. Si sentiranno qualcos’altro, ma inadeguate no, le inadeguate le abbiamo finite, chomp,  eha v’uffima.

E quindi non possono neanche gustarsi il piacere sottile di trovarsi improvvisamente di fronte a un dettaglio.

Che quando lo vedi dici: naaaaaaa.

Una scemenza. Assurda. Una possibilità su un parsechiliardo. Neanche nelle peggiori trovate fantasiose di Caracas per svoltare una trama infognata.

Una stupidaggine totale che sposta di un nulla l’asse di rotazione della faccenda.

Di un nulla.

Giusto il tanto che basta a farti tornare a casa, a un’ora impossibile, cantando “Non sono una cogliona” rimixando insieme Berté e “Bullet with butterfly wings”.

 

Che in confronto a pesto di rucola e marmellata di pere, non so se mi spiego.

 

 

(chiedo scusa. stavolta davvero non si capisce un cazzo. ma se non la esorcizzavo scrivendo non ne uscivo)

[≠]

Sentirsi cogliona.

Succede.

Al momento di uscire, stranamente in ritardo, mi accorgo che il vento non è mica sceso.

Non che sia poi così forte da rendere una pedalata di 15 chilometri impossibile, per carità, se ne son viste di peggio. Altrochè se se ne son viste di peggio.

È solo che.

È solo.

È solo che una si sente cogliona.

Ma cogliona forte, perché non è che sia così cretina da non saperlo, che il modo migliore per far passare quel vago, vaghissimo senso di inadeguatezza, non è sbattersi il muso a forza contro qualcosa che porta a considerare attendibile l’ipotesi di essere inadeguata del tutto. Lo sai, non sei mica scema. E te lo sarai ripetuto una dozzina di volte, nel corso della serata.

Ma ognuno ha i suoi talenti. Il mio è quello di organizzare sorprese che fanno brillare sorrisi da sessanta megatoni, preparare una pasta ai quattro formaggi da urlo e farsi venire le crisi di insicurezza quando tutto e tutti quelli a cui tieni di più sembrano dire esattamente il contrario.

Cogliona l’ho già detto?

No, non c’entra niente, il vento. E nemmeno la bici, né il posto in cui dovevo andare o quello che avrei dovuto fare.

(me ne sono appena ricordata un altro, di talento. Riguardo al quale posso solo andare sulla fiducia, visto che non posso verificarlo su me stessa. Ma diciamo che mi si dà qualche elemento per fidarmi)

(sorrido mio malgrado. coglionissima)

Sbatto tra casa e terrazzo come una mosca in un bicchiere. Una mosca che non va da nessuna parte, non decolla, zavorrata da un carico di banalità pari al triplo del suo peso. Che sembra poco, ma per una mosca c’è il tanto sufficiente per starsi sul cazzo da sola.

(umile, mosca. obiettiva. essere obiettiva è una cosa che sai fare. renditi conto che l’entusiasmo non basta per tirar fuori qualcosa di interessante, e che se tutto quello che riesci a produrre supera di poco il livello di mediocrità che tu stessa non vorresti mai ritrovarti a leggere o a sentire, è il caso di capire che è meglio star zitta e lasciare almeno il dubbio di non essere un oggetto del tutto insulso)

E poi vien fuori che Atletico-Barça la danno in chiaro.

Cogliona sì, ma fino a un certo punto. La vita è fatta di priorità.

In campo sembra lo sappiano tutti che devono acchiappare al lazo la tua attenzione e tenerla fissa su quel cazzo di pallone per non farla tornare lì dove non ci fa niente. Ci impiegano quasi settantacinque minuti, ma ce la fanno. Diventa una questione personale tra te, che ti senti incollata addosso un’inadeguatissima maglia a strisce che non ti rappresenta, e Neymar, il quale si presta cortesemente a impersonare il motivo principale per cui ti senti così (cogliona, nel caso a qualcuno fosse sfuggito), quello che ti fa alzare le mani con un moto di ammirazione sincera, rendere a malincuore, pesantemente a malincuore, l’onore delle armi e dire ok, io non ci arrivo, resto qui a giocare nel mio campetto spelacchiato solo per il gusto di, senza nessuna pretesa, solo perché non potrei farne a meno neanche volendo, e me ne faccio una ragione.

E poi i colchoneros vincono.

Succede anche questo.

E “farsene una ragione” è un’espressione che mi ha sempre fatto girare le palle.

Succede che questa cosa un po’ ti stranisce. Ok che è l’Atletico Madrid, mica il Real Roccacannuccia B, però ti stranisce. Come se ti si piazzasse davanti R. Lee Ermey a ringhiarti in faccia “Ok, abbiamo scherzato, adesso porta quel culo al di là dell’ostacolo, Palla di Sider! Se Dio te lo voleva far superare senza sforzi, ti miracolava e ti faceva spuntare le ali al culo!” e una grossa mano brobdignacca calasse dall’alto a ripristinare l’ordine in un ingranaggio inceppato.

Intanto il vento non se ne da per inteso.

Decidere in fretta: optare per una salutare (papparaparapapparaparapà!) boccata d’aria, saltare in groppa ad Amaranta, catapultarsi in centro facendo polpette dei limiti di velocità e della barriera del suono, cercare parcheggio per mezz’ora, non trovarlo, chiedere educatamente a San Vercingetorige vigile e martire di polverizzare due Smart per far posto, ottenere un cortese ma fermo rifiuto farcito di “t’attacchi” e “uscivi prima”, andare a prendere in ostaggio il cane di San Vercingetorige vigile e martire, scoprire che non ce l’ha, regalarglielo, aspettare che ci s’affezioni, sequestrarglielo, modellare del das in forma di orecchio canino mozzato, al momento di imbustarlo anonimamente rendersi conto che è venuto unammerda, disfarlo, impastare altro das in forma di dito mozzato, inviarlo, ricevere una telefonata da San Vercingetorige vigile e martire incazzatissimo che ti diffida dal ridurre così anche l’altro orecchio del suo cane MA sortire l’effetto desiderato e trovare improvvisamente parcheggio, precipitarsi al festival sperando di riuscire a beccare almeno l’ultima quaterna di corti e scoprire che, in barba a qualunque usanza civile, non hanno iniziato coi consueti quaranta minuti di ritardo ed è già tutto finito

oppure

stare a casa a incidere una paginetta di “cogliona” nel granito.

Scelgo la busta 1.

Come giro la chiave nel quadro, i ragni nel serbatoio si ritraggono infastiditi. Arrivo al primo distributore utile sulla scia dei fumi, e quelli della benzina son nulla in confronto ai miei quando mi accorgo che la colonnina non prende il bancomat.

Fortuna che in tasca ho cinque euro.

In monete.

Torno indietro modulando un evergreen di Masini.

La punta della freccia è ancora lì, ben conficcata. E c’è un solo modo. Harry Hole che fissa il chiodo no, è troppo figo, siamo più al livello di Tom Hanks che impazzisce dal mal di denti. La guardo con odio, la stronza di cui non sentivo il bisogno, prendo fiato e la spingo a fondo fino a farla uscire dall’altra parte.

Se non guardo la ferita va quasi bene.

Talmente bene che posso concedermi la terza sigaretta della giornata con la coscienza che sarà l’ultima, non come prima, che se avessi dato retta a me mi sarei fatta fuori un ettaro di tabacco dal nervosismo.

È presto, neanche mezzanotte. Limpido, alla facciaccia mia. Ma soprattutto presto. Il Grande Carro esattamente sulla mia testa. Castore e Polluce ai posti di manovra, scendo oltre Betelgeuse e finalmente la ritrovo, dopo giorni che arrivavo troppo tardi per riuscire a vederla. Tre stelle che riportano un sorriso leggero, inarrestabile e pieno, un sorriso che spinge lentamente l’inadeguatezza nel suo cassetto, a pedate. Sun Tzu e una cogliona un po’ meno cogliona e più altro. Perché io quello sono. Altro.

Perché se fossi qualcosa di comparabile a una qualunque altra cosa conosciuta dubito che me ne starei per cinque minuti a fissare il mio frigo mal frequentato e la risolvessi a mangiarmi un toast di pane integrale, zucchine e marmellata di pere pensando che non è neanche malaccio.

 

[legalize it]

Ora, per carità, io capisco che ad alcuni di noi feticisti il concetto di legalità possa ancora offrire emozioni profonde, anche fisiche. E non solo per l’impagabile brivido di aspettativa che regala il sentire, solo il sentire, lo scatto delle manette ai polsi.

Capisco anche che la sintesi sia una necessità da cui non si può prescindere, in un mondo che va avanti a botte di 140 caratteri e dopo 35 chi legge s’è già stufato.

Però chiamarla “ora legale” è fuorviante.

Il nome più appropriato, per un meccanismo perverso del genere, sarebbe più “Ora Di Mandare Affanculo ‘Sta Cazzata Degli Orologi E Tornare A Misurare Il Tempo Strofinando Due Legnetti, Che Io L’Ho Fatto Per Anni E Mi Ci Son Sempre Trovata Benissimo, Adesso Cos’è ‘Sta Mania Di Fare I Tecnologici, Tutti Saputi, Gente Che Non Sa Impostare Il Timer Per Scolare Il Brasato Ora Si Scopre Grande Esperto Di Tempologia, Siamo Un Paese Di Santi, Poeti, Navigatori, Commissari Tecnici Della Nazionale E Spostatori Di Quelle Cazzo Di Lancette, E Un’Ora Avanti, E Un’Ora Indietro, E Che Stamo A Balla’ Er Walzer, Un-Duè-Ttre Un-Duè-Ttre, Che Poi Uno Che Si Chiama Giovanni Struzzo, Ma Dico Io, Non Poteva, Vabbé, Lasciamo Stare Altrimenti Poi Mi Distraggo, Uh, Guarda, Uno Zebù, Che La Gente Poi Si Confonde, Se Proprio Li Volete, Gli Orologi, Fateli Fissi, Saldati, Che Non Solo Sia Impossibile Spostargli Le Ore, Ma Pure Che Se Solo Qualcuno Ci Pensa Gli Arriva Una Pendolata Atomica Sugli Incisivi, Sono Sei Etti E Mezzo Di Definizione, Che Faccio, Lascio?”.

Mi piacete perché siete perspicaci.

Da una settimana vagavo come un’alienata, capelli spriati e sguardo psicotico, ripetendo a fior di labbra “un’ora avanti, un’ora avanti, va spostata un’ora avanti, avanti, avanti, avanti”, l’altra sera ho incontrato Ghino di Tacco al Carrefour, gli ho messo tanta di quella paura che ha pagato la spesa.

Ieri notte alle due meno un quarto ero lì che disquisivo di come l’aggiornamento automatico dell’ora sul computer sarebbe stato foriero di catastrofi inenarrabili.

Le quali si sono puntualmente verificate.

Cioè, puntualmente è da capire.

La verità è che a me, contrariamente a Bruno Martino, l’estate piace molto. Quando finisce, mi sento un po’ come Enrico La Talpa in una celebre striscia che non riesco più a ritrovare, e che magari racconto dopo altrimenti qui non se ne esce vivi, che di quello di cui volevo scrivere veramente non ho ancora manco posato la prima lettera. Io la fine dell’estate la rifiuto proprio. La rifiuto al punto che mi tengo un paio di orologi settati sull’ora legale, tanto poi torna.

No, non mi dimentico che.

Quasi mai.

Il problema si presenta, appunto, quando arriva il momento di tornarci, all’ora legale. A Villa Balorda ci son sei orologi: uno ha le batterie scariche, uno è quello ricavato dal remix di “All we need is love”, uno è quello del computer, uno sul telefono, uno sul tablet, uno è un orologio orologiodapolsiforme che mi dimentico regolarmente di indossare, e poi c’è quello dello spazzolino elettrico. Quest’ultimo passa tutto l’inverno avanti di un’ora e venti: sessanta minuti per l’ora legale e venti per il tentativo fallito in partenza di non farmi arrivare in ritardo nei posti. Quando qualcuno va in bagno a casa mia, lo guarda e trova conferma ai suoi peggiori sospetti.

Se gli orologi cominciano a prendere iniziative, è la fine. Lancio qui e ora una proposta di crowdfunding: investiamo in ricerca. Facciamo sì che l’app a forma di post-it che ti appare sul display con la scritta “Oh, guarda che l’ora me la sono aggiornata da solo, sto a posto” veda la luce in tempi brevi. Io prendo il 33% di royalties sul totale della somma raccolta.

Nel frattempo, qualche fessa in stato confusionale continuerà ad arrivare al campo un’ora in anticipo e a rischiare l’infarto pensando di aver sbagliato posto.

La fredda cronaca:

Katia Ricciarelli Negli Stadi Tour 2014.

E potremmo pure chiuderla qui, fine del post, grazie a tutti, è stato indimenticabile, vi chiamo io.

Ma non renderebbe giustizia allo sforzo compiuto dall’artista. Lei, con tutto il carnet di date strazeppo, tra una Stabbing Mater a Wembley e un suicidio di Norma dal terzo anello di San Siro, snobbando l’invito a cantare l’inno all’inaugurazione del nuovo plastico di Tor di Valle, è riuscita a infilare questa matinée qui, al Santa Lucia di Panadia,

Ci teneva.

“Che culo”, azzarderebbero i miei piccoli lettori, se non fosse che la sublime ha già abusato ampiamente del termine facendovi rientrare, e non in senso figurato, gli oggetti più disparati. Non nel suo, beninteso, che ella è diva notoriamente casta, ma in quello dell’arbitro.
Repertorio completo, roba che una comitiva di scaricatori di porto rientranti dal turno di notte si è segnata passando e si è affrettata a rientrare in convento.

Alla fine del primo tempo ha già lessato i timpani a tutti.

Al 3′ del secondo tempo, fuori dal suo camerino, si è assiepata una discreta ressa di gabbiani e balene che si contendono un dopoteatro con lei a botte di corbeille di aringhe.

Al 15’, il CEO della Beghelli le si inginocchia davanti con un contratto di esclusiva sui richiami a ultrasuoni per cani da guardia.

In campo se le danno di santa ragione, due espulsi, due rigori, ammoniti q.b.
Le panchine si sputano in segno di reciproca stima. All’ennesimo fallo tattico, entrambi gli allenatori cercano reciprocamente di azzannarsi alla gola, ma si congelano sentendola illustrare una fantasiosa teoria sulla crema spalmabile più amata dagli arbitri a merenda.

Si girano completamente verso la tribuna.

Guardano il barile di salacche platinato che, circonfuso di soavità, si adopera perché l’intera classe arbitrale prenda coscienza della propria vocazione alla zoofilia estrema e ci dia dentro con gli elefanti sotto gli occhi affettuosi di Annibale e Moira. L’Associazione Parenti delle Semicrome Vittime di Abusi si costituisce parte civile.

Gli allenatori si guardano con la coda dell’occhio.

Lei cattura nuovamente la loro attenzione con un acuto che fa incrinare i finestrini dello Sligo-Brindisi delle 12.25. Le filature sulle u le vengono una meraviglia. L’unita di emergenza antirabbica chiama i rinforzi.

I due tornano a fissarsi le scarpe, poi azzardano sottovoce:

–          Ci è rimasta?

–          Purtroppo no.

–          È roba tua?

–          In che senso, scusa?

–          Tipo, è tua moglie?

–          Pensavo fosse la tua.

–          Ok, quindi possiamo procedere?

–          Al 3.

Uno.

Due.

E poi strillano con tutte le loro forze:

–          Deh, o suprema signora dei verri, ti imploriamo, fai cessare subitaneamente codesta litania molesta precorritrice di orchiti infiammatorie, lesioni personali gravi, omissione di soccorso, omicidio preterintenzionale e occultamento di cadavere.

(disponibile anche in lingua originale con e senza sottotitoli)

La divina, stranamente, s’impermalisce. Gira uno sguardo di fuoco sugli orchestrali e, non trovando supporto alcuno, tira su lo strascico del costume di scena ed esce dalla quinta senza più proferir verbo.

Tutto lo stadio:

–          Eccheccazzo, non potevate dirglielo prima?

Dura la vita del mister.

Come la dea vuole, la gara termina. I due allenatori, uniti dall’aver superato insieme l’esperienza traumatica, vengono a ritirare i documenti tenendosi per mano. Finisco il colloquio, l’arbitro è giovane, molto giovane, ma promette bene. C’è il sole. Nel mio futuro immediato intravedo un pasto caldo e succulento. E, volesse il cielo, mezz’ora di sonno a piombo.

Pag. 5 del “Manuale della tranvata”: mantenere i sensori puliti e sgombri da foglie, rametti, carcasse di topolini e lucertole, spugne, tappi di sughero, palle di alghe.

I miei sensori sono in corto dal sonno, le ultime risorse energetiche si sono esaurite durante il colloquio, l’Ucraina non s’è manco qualificata per i mondiali, figurati se hanno testa di dar retta a me che busso chiedendo se hanno due litri di gas da prestarmi. E poi mi sembra un’affermazione innocente.

–          Non preoccuparti, te lo mando io il modulo del referto, dammi la tua mail.

Nessuno è innocente.

Neanche una mail nome.cognome.annodinascita@.

Non se l’anno di nascita è il ’92.

Avverto distintamente lo sdoppiamento: una parte di me continua a scrivere quello che viene dopo la chiocciola, riesce a rispondere con proprietà a un altro paio di domande e addirittura a non dimenticarsi il telefono sul tavolo.

L’altra è rimasta paralizzata su quel numero. Cosciente, ma devitalizzata. L’unico movimento possibile è sbattere le palpebre, di tutto il resto non c’è più nulla che funzioni. Cuore, polmoni, tendini, niente risponde ai comandi. Che non partono, l’EEG è piatto. Un solo neurone si arrischia a dire che non è mica la prima volta che. Ha ragione. Non so cosa mi abbia preso, non mi prende mai così.

Non posso fare a meno di guardare l’arbitro in maniera diversa, adesso, e non solo perché mi sento le pupille larghe come piattini da frutta. Non posso fare a meno di chiedermi se anche tu sembreresti più giovane. Avrebbe senso, lo dicono anche di me, lo dicevano di tuo padre. Non posso fare a meno di pensare che anche tu avresti fatto un sacco di sport, e che adesso, a 21 anni e mezzo, avresti probabilmente le stesse spalle ben disegnate, le stesse gambe lunghe per andare lontano. E braccia che non mi hanno mai stretto.

Il debito d’ossigeno si fa sentire, ma non c’è verso. Ho il naso ostruito da una pietraia, la trachea sembra uno spot del deserto di Atacama, Jeffrey Dahmer s’è divertito coi miei polmoni.

Saluto avendo cura di non sembrare in apnea, forse riesco addirittura a sorridere, l’arbitro è stato bravo, se lo merita. Fortuna che almeno una delle due è in grado di camminare e portarci entrambe fuori di lì. Dagli spogliatoi al cancello ci saranno duecento metri. Troppi da percorrere allo scoperto, se nel frattempo ti si rovescia addosso un carico di favole non lette, libri non regalati, giochi non insegnati, sbaffi di gelato non puliti, ginocchia sbucciate non disinfettate, vasche e lettoni non condivisi, piedi non solleticati, sogni brutti non scacciati.

Sei una cretina, ripete quella che riesce a mettere un piede dopo l’altro senza cadere. Ti stai facendo male da sola. Non serve a niente, non puoi farci niente. Che cazzo ti è preso? Non ti prende mai così.

La pressione contro lo sterno è fortissima, non è che faccia quasi male, fa male proprio, da volersi strappare il cuore da dentro e calciarlo in meta, il campo è polifunzionale. Accelero, non so come faccio ma accelero, Amaranta come un tronco a cui aggrapparsi nella corrente furiosa e finalmente posso riversarmici dentro e piangere, piangere, piangere, piangere tutta la disperazione e l’abbandono di questo mondo.

E poi, piano piano, passa.

Non del tutto, ma passa.

[the bends]

– Buongiorno, vorrei del raso nero, doppia altezza, per favore.

– Ne tengo uno bellissimo alto tre metri. Diegarmando, vallo a piglia’ per la signorina.

L’accento partenopeo racchiude in sé lo spirito del commercio. A tutti i livelli, dal trasformare questo locale commerciale 400mq più servizi, luminosissimo, centralissimo, due vetrine fronte strada nelle viscere del Grand Bazaar di Istanbul, alla tratta dei bianchi operata quotidianamente sui traghetti da e per le isole.

Come se non bastasse l’essere stata appena dislocata geograficamente in almeno altri tre posti diversi dalla sola forza di una cadenza e di un’associazione di idee, la prospettiva dei tre metri d’altezza mi spalanca davanti uno scenario talmente meritevole di attenzione che mi sfugge completamente la domanda successiva. Solo quando Diegarmando torna con il rotolo e lo sbatte sul banco con l’inesperienza dei suoi diciassette anni, plano e capisco di essermi persa un pezzo.

– Dico, per-cosa-vi-serve?

Il mercante sa il fatto suo. Oltre ad essere curioso come una scimmia, sa che si viene qui perché non rifilerebbe mai un articolo inadatto pur di concludere la vendita. Ripete la domanda, perfettamente logica e prevedibile.

Di quella prevedibilità logica che coglie perfettamente impreparati.

Ciononostante, apro la bocca seguendo l’impulso primordiale.

Realizzo.

Mi blocco.

La chiudo.

Io ci provo, a star seria, ma sulla linea delle mie labbra ferve un movimento che manco sulla tolda dell’Hispaniola o nello studio del marito della Daniela Garnero: tira su, no, tira giù, cazza la randa, molla il pappafico, finché la forza di gravità capisce che la battaglia è persa, molla gli ormeggi e lascia che gli angoli della mia bocca si sollevino e puntino, inarrestabili, a bucare il soffitto.

E mica ti può andar bene sempre, cocca.

Il mercante di rasi non si scompone. È un omino arzillo sui sett…ott…novecentotrentasei anni, mese più, mese meno.
Mantenuto in forma dal manipolare quotidianamente le esigenze di dozzine di donne di tutti i tipi, tutte le età, tutti i colori e non è escluso che in alcuni casi abbia approfondito anche il versante sapori.
Aduso a soddisfare le richieste più strane:

– Mi serve del percalle per un bouquet.

– Il percalle lo usa per le lenzuola del corredo. Che tipo di bouquet deve confezionare?

– Di calle.

– Scemo io.

 

– Questo pile qui, ce l’ha anche con disegni di altri animali?

– Quello ce l’abbiamo con cagnolini, gattini, coniglietti, topolini, pulcini, elefantini e ranocchie.

– Iguane no? Devo fare il cappottino per la mia iguana, mica le posso mettere addosso un altro animale, si offende.

Da gentiluomo qual è, però, non può non apprezzare le sfumature della discrezione.
D’altra parte, il mercante di tessuti è come il medico, se non gli dici tutti i sintomi non può darti la cura giusta. Quindi.

– Devo fare delle bende.

Tecnica. Seria e professionale, gli angoli della bocca hanno smesso di treninare “brigitte peugeot peugeot” per il negozio trascinando matrone dallo scampolo facile e sarte segaligne poco inclini a scollare, e son tornati al loro posto.

– Delle bende tipo…mummia?

Il mercante si fa cauto.

– Nonno, quelle sono bianche, di lino. Queste le deve fare nere. Come quelle dei condannati a morte.

Diegarmando, una testa non del tutto sprecata a far da sostegno a barili di gel.

Ma è giovane.

È giusto che chi ha un potenziale abbia uno scopo, ma se procede prima del dovuto si smarrisce; se invece trova una guida e la segue otterrà il suo stesso beneficio (propizia è perseveranza).

Il mercante lo guarda con affetto, sorride e gli legge il futuro attraverso.

– Diegarma’, quella la signorina ha intenzione di farli morire, ma mica fucilandoli.

Mercante di rasi 4 – Resto del mondo 0.

O rei è ben saldo sul trono, Diegarma’.

[correva l’anno]

Signore, ma in questo caso soprattutto signori, va ora in onda il compendio del 2013 sintetizzato nelle frasi che più e meglio ne hanno rappresentato i tratti salienti.

E’ stato un anno interessante, per non dire un tipo.

Chi l’avrebbe mai detto che dentro avrebbe avuto una delle sorprese più belle di sempre. 🙂

Nel consueto ordine:

– Bilirubina ha votato.

– Ho visto il tuo blog. Non dirglielo a mamma che hai tradotto un libro su, sì, insomma, sulle vagine.

– Ho (ancora) il completo controllo della minzione e soprattutto una timidezza naturale che mi impedisce di esercitarla in luoghi pubblici.

– Bella de casa.

– Una sola di quelle tette, di fuorigioco, ne sa più di tutti voi messi insieme.

– Mi hai convinto, ti metto tra i preferiti.

– Abbiamo tolto tutto quello che c’era da togliere.

– Come. Cazzo. Ti chiami. Di. Cognome?

Signori molto, molto, aiutatemi a dire molto speciali. Che dirvi, se non grazie?

(oh, e poi, così, con nonchalance, ce n’è un’altra. Fuori concorso. Tre parole. Nove lettere. Finora ha funzionato in maniera splendida. Io. Tu. Panterone leopardate. Cover del kindle. Altre domande stupide?)

[ten]

Dieci e più volte che mi son ritrovata col telefono in mano, e poi l’ho solo guardato. Fanculo.

Dieci e più volte che sono atterrata a Fiumicino e l’occhio mi è corso attraverso la vetrata. Sei sempre lì.

Dieci e più volte che sono andata in quell’angolo in fondo, così, facendo finta di niente. Ora ci han messo la zona fumatori.

Dieci e più volte che son passata davanti a Villa Bonelli. E non sono scesa.

Dieci e più volte che ho spiegato perché il fazzoletto si chiama così. E mi è venuto da sorridere. Parecchio.

Dieci e più volte che ho ascoltato i Giardini di Mirò. E non son più riuscita a far niente per ore.

Dieci e più situazioni assurde che vorrei raccontarti, e non solo perché son sicura che non ne parleresti in giro. Una in particolare, di questi giorni. Cose per cui ti metteresti le mani nei capelli e diresti “solo tu” fingendo di disperarti. E poi rideresti fino a sentirti male.

Dieci e più volte che me la rido da sola. Poi smetto. Poi riprendo, guardando in alto per non farle scendere, anche se non ho il rimmel.

Dieci e più cose che mi mancano.

Fanculo l’ho già detto?

[happiness is a bookworm]

Mi passo una mano fra i capelli.

Niente mutande in testa.

Mi porto una mano al petto, poi scendo. Lana. Cotone pesante. Pur essendo – stranamente – uscita di casa a capofitto, sembra che non mi sia dimenticata niente.

Quindi non capisco tutto questo fissare.

Come se non avessero mai visto un australopiteco scendere da una Fiesta del ‘52 e avvicinarsi all’ufficio postale nella classica postura da snowboarder su ghiaia. Dopo che ha scansato un olmo e centrato un faggio. Rigida come uno stoccafisso dal bacino in su, asse parallelo a quello terrestre, ginocchia piegate a 45°. Mi muovo basculando con moderazione.

Lo so quello che sembra. Ma non è come pensate.

Non è come pensa la matrona parellepipeda, abbigliata con giaccone color caffè della Peppina, gonna pied-de-struzz, calza contenitiva in titanio, scarpe Manolo Bleahnik, che mi si para davanti all’uscita della porta scorrevole intimandomi truce “Vade retro, figlia di Sodoma!”.

Che, signora, se l’assunto da lei sostenuto fosse fondato, sarebbe piuttosto un invito a nozze.

Non è come pensano neanche i due gentiluomini, i quali, soggiogati dal mio regale incedere, partono col toto-mereghetti:

–          Alì Babà e i 40 torroni, lei faceva la parte del babà, son sicuro.

–          Ma sicuro di cosa, era Sette trapani per sette ciambelle, non ti ricordi? Le impersonava tutte e sette e senza effetti speciali, e alla fine…

–          Ma cosa ne vorrai sapere tu, che non sai distinguere una ciambella da un bagher.

Arranco oltre il Simonetto Martellini della Trexenta, scanso la figliastra budrangia di Frank Sinatra che mi stornella “Gangbang” con un velo di malcelata invidia e faccio per accomodarmi sul duro legno, quando mi ricordo che non è il caso.

Ma non è come pensate.

E’ solo che domenica ho fatto il cambio di stagione.

In ogni caso, ho il 48. Siamo al 34. Assumo, per quanto possibile, l’Atturattentasana (posizione di colei che ha trovato ieri sera rientrando la cartolina di mancata consegna nella casella della posta, e ha passato la notte a resistere alla tentazione di cercare un piede di porco, perciò ormai non è che abbia troppa pazienza) e mi concentro sul vaporizzare qualunque utente intenda trascorrere allo sportello più di quattro secondi.

Tra il sopracciglio torvo, la faccia di quella che ha fatto le tre girando per Oslo per distrarsi e il portamento da gobba di Notre Dame, devo fare la mia figura. Nessuno si attarda più dello stretto necessario.

47.

– Annamaria, io vado in pausa.

Morta che parla.

La centro in fronte con il raggio ciclonico. Lei tremola leggermente, come quando guardi il buco del serbatoio attraverso i fumi della benzina. Solo la voce un po’ metallica tradisce la riprogrammazione.

–          Annamaria, io vado in pausa dopo questa signora.

Le riverso sul banco tutto quello che serve: avviso di giacenza, carta d’identità, patente, libretto, passaporto, tessera elettorale, le analisi del sangue, le chiavi di casa, due guanti spaiati, una gomma, un filtro e la schedina del totocalcio con cui ho fatto 11 nel 1990, mentre le recito a memoria il codice fiscale, quello meccanografico, la matricola Enpals e la formazione del Cagliari dello scudetto.

–          Scusi, com’è il nome?

Spirito di Nino Castelnuovo, possiedimi ORA e fammi scavalcare questo banchetto.

(risponde la segreteria telefonica di Nino Castelnuovo: l’utente da lei richiesto non è al momento disponibile. In sostituzione può provare il modello Mario, in promozione fino a Natale a soli sette fili al minuto)

Sarà l’effetto della canapa, ma riesce ad andare a cercare il mio pacco sulle sue gambe, con solo un’eco di pedata nel culo.

–          Non c’è.

–          Prego?

–          Non c’è.

Il sorriso che prima non riuscivo a nascondere mi cola via e finisce in una piccola pozza intorno ai miei piedi. Inspiro. Espiro.

–          No, guardi, è escluso. E le candid camera ormai hanno poco da dire. Suvvia, mi dia il mio pacco che anche questi signori in coda hanno da fare.

–          Non c’è.

–          Si appoggi bene allo schienale della sedia, a volte il pulsante s’incanta e il disco non esce. Poi, sia gentile, mi consegni il mio pacco.

–          Non…

Ci facevo lo spezzatino di tirannosauro con ‘sto sguardo, stella.

–          Non è ancora rientrato.

–          In un altro momento sarei lieta di commentare con lei l’impudenza dei giovani pacchi che perdono di vista i veri valori, scambiano quest’ufficio postale per un albergo e se ne vanno in giro per rave con certe raccomandate pluritimbrate, ma non oggi. Oggi le dico solo che sul retro di  quest’avviso – su cui un laureato in farmacia, gettando lo scompiglio in famiglia dopo aver annunciato che lui avrebbe invece fatto il postino, IL POSTINO!, ha inciso i geroglifici che tradotti significano il mio nome e indirizzo e Amazon come mittente – c’è scritto, stampato, che il pacco può essere ritirato presso l’ufficio postale di competenza a partire dalle 10.30 del giorno successivo al ricevimento dell’avviso. Questo è l’ufficio postale di competenza. L’avviso porta la data di ieri. Sono le 10.55. Kong vòle pacco. Ora.

–          Mi dispiace, ma il pacco non…

Iperventilo.

–          Ok, ragioniamo. Il pacco non c’è, lei mi dice. E dove potrebbe essere?

–          Eh, questo non glielo so dire.

–          EEEEEEHH, risposta sbagliata. Io ho preso una mattina di permesso per venire qui a prendere quel pacco. Non me ne daranno un’altra. Non andrò via di qui senza pacco. Quindi ora lei gentilmente me lo trova. Grazie.

–          Ma guardi che siamo aperti fino alle sette di sera, può prenderlo un altro giorno.

–          Io, per dirla con una certa ricercatezza, alle sette di sera mi sto trifolando i coglioni facendo cose che mi guarderei bene dal fare, se potessi pagare l’affitto in paioli di pennette ai quattro formaggi. Quindi ora, se volesse usarmi la gentilezza di dirmi dove si trova il mio pacco, io le userei quella di levarmi di torno e andarmelo a recuperare, ovunque sia, senza ulteriori indugi né disagi per nessuno. Altrimenti sappia che mi incatenerò a lei e le chiederò il mio pacco ogni due minuti come un orologio a cucù finchè non salterà fuori. Scelga.

–          Annamaria, i pacchi di Amàzon come vengono lavorati? Qui non ci sono.

–          Hai guardato nell’altra scatola?

–          Ah.

Ritorna brandendo due pacchi color avana, con la scritta Amazon stampata sopra in corpo 320.

–          Quale dei due è suo?

–          A intuito sarei tentata di dire quello dove c’è scritto il mio nome, ma per cognizione di causa direi quello più grande.

Me lo mette in mano. Il sorriso si riarrampica su dalla pozza e torna al suo posto. Denti a strafottere.

–          Ha visto, alla fine c’era. Doveva tenerci proprio tanto, a questo pacco.

L’unico difetto del raggio Durban’s è che è difficile controllarlo. Involontariamente incenerisco l’armadio delle raccomandate, abbronzo lei e abbaglio il Barcellona-Ciampino delle 11.20, che finirà a Helsinki.

Tenetevi la pistola.

Happiness is being a bookworm.

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[alla destra di moccia]

Rega’, non è vita, questa.

Ci avevano avvisato, ma un conto è sentirlo raccontare. Per affidabili che tu possa ritenere i colleghi di mezza Europa e degli States pensi sempre “se, vabbè”.

Un conto è vederlo con i tuoi occhi.

Il nostro è un lavoro delicato, rischioso. Riconosciuto solo se per caso qualcosa va storto, quando tutto fila liscio, mai. Ci sta che un minimo d’importanza ce la diamo da soli. Ci sta anche colorirlo un po’.

Non stavolta.

Sono ovunque.

Sotto il tavolo della conferenza stampa.

Aggrappate ai lampioni.

Dietro le tende.

Scopri il letto e ce ne trovi una.

Sollevi il coperchio del water e ce ne trovi altre tre.

Armadi e cassetti non ne parliamo.

Due erano riuscite a infilarsi dentro i croissant della colazione.

Escono.

Dalle fottute.

Pareti.

E strillano.

Dio pirata se strillano.

Strillano tenendo sotto assedio l’hotel che le senti attraverso i vetri insonorizzati della suite presidenziale.

Strillano nella hall dell’aeroporto mandando in tilt la torre di controllo.

Strillano quando arrivano a frotte alla stazione Termini da tutta Italia. Due della Polfer chiamati a scortare il treno da Milano non fanno in tempo a toccare terra che vomitano sui binari. Hanno strillato per tutto il viaggio, dicono.

Strillano mentre cercano di intrufolarsi in hotel nei cesti della biancheria sporca.

Strillano mentre lo succhiano al lift nella speranza che le lasci salire.

Strillano all’annuncio che il concerto verrà spostato perché le Capannelle non bastano più.

Strillano all’annuncio che forse non basta manco l’Olimpico.

Che cazzo di polmoni c’hanno queste, vorrei sapere.

Le guardi e sembrano degli scriccioletti innocenti, qualcuna non arriva ai dodici anni. Ma non ti puoi fidare, ieri notte, tra quelle arrivate prima per prendere il posto sotto transenna, ci sono stati otto morti e diciannove lacerocontusi. Mica che si son calpestate. Due sono state sgozzate, cinque strangolate col filo elettrico. Una dalla sorella. L’ultima s’è arrampicata su una torre Layher e s’è buttata di sotto urlando “Ho vissuto per questo momentooooh!”.

Un ronzio nell’auricolare. Ai posti.

Ci siamo.

Cambiamo canale ogni trenta secondi con un algoritmo messoci a disposizione dalla Nasa per l’occasione. Abbiamo sei squadre di sosia pronte a ogni uscita, compresa quella del tunnel scavato in due giorni da un’equipe dell’Abate Faria Inc. che porta direttamente dal caveau dell’albergo al palco. Una delle squadre si lancerà in parapendio dal tetto dell’hotel per creare un diversivo, un’altra passerà dalle fogne a bordo di microscopici sottomarini gialli.

Ma queste non le freghi. Hanno sensori dappertutto e l’olfatto di un Bombix mori.

E strillano, cazzo.

L’onda d’urto spalanca le porte e ci depila e denuda completamente. Del concierge restano pochi brandelli di carne e due nappine appese allo scheletro. Tutti gli antifurto della costa tirrenica si producono in una versione death samba di “Real to real cacophony”. In Boemia viene dichiarato lo stato di calamità naturale. I cani niente, già sterminati qualche giorno fa in quell’incidente con Pallotto, una prece.

Loro, impassibili.

Non loro le fan. Quelle piangono, ridono, lanciano mutande e mazzi di fiori, si strappano capelli propri o altrui, svengono con e senza esse. Il tutto senza smettere di strillare.

No, loro-loro.

Sarà che ormai ci avranno fatto l’abitudine, ma non gli si muove un pelo. Si avviano impeccabili, in fila per uno, tra due barriere jersey di muscoli (che saremmo noi, modestamente). Sulle strisce pedonali.

E si fa improvvisamente silenzio.

Giovanni.

Cammina tranquillamente fino alla limousine e ci si accomoda dentro pacifico senza che nessuno se lo fili di pezza.

Spiazzamento nell’entourage.

Riccardo.

Idem come sopra. Se fosse uscito il garzone del bar di fronte avrebbe suscitato più clamore.

Potrebbe essere una trappola, allerta massima.

Ma basta che la prima ciocca brizzolata faccia capolino e il frastuono riattacca decuplicato.

“Paolo, le legioni ti salutano”. “Magno, bevo e tifo Paolo”. “Paolo sposami”. “Pur’a me”. “E io che so’, la figlia della serva?”. “Paolo, la poligamia è un’opinione”. “’sto Penthouse aspetta a te”. “Paolo ottavo re di Roma”. “Ma no, quello era Amadei!”. “Sì, ma ha liberato il posto apposta”.

Arginarle è un’impresa, contenerle impossibile. Le prime file si lanciano a corpo morto nella speranza che il loro sacrificio possa valere lo sfioramento di un lembo di giacca a quelle dietro di loro. Gli idranti non bastano, ai coccodrilli del fossato li prendono a pernacchie, i cavalli di Frisia son più terrorizzati loro.

Per la prima volta nella mia carriera pavento la disfatta. Spero almeno di morire nell’adempimento del mio dovere e di portarne con me qualche migliaio quando lui sporge lateralmente una mano.

Subito gli viene consegnato un panino con provola e salsa piccante.

Fa segno di no con la testa.

Il panino con le sue impronte digitali viene conteso e smembrato tra quelle che ora sono le fiere e mutilate titolari di una briciola ciascuna.

Sporge nuovamente la mano.

Gli viene porto un gelato. Lo lecca perplesso prima che gli spieghino che si tratta di un microfono.

Guarda la folla strillante e straripante. Guarda noi che stiamo per soccombere. Nel frattempo Giorgio è trotterellato verso la limousine dagli altri tra l’indifferenza collettiva. Tre sguardi interrogativi in direzione dell’hotel, lo sportello aperto in attesa.

“Non preoccupatevi per me, ragazzi”, grida per sovrastare il frastuono. “Pensate a salvarvi, vi copro io”.

Occhi negli occhi. Un cenno del mento. È stato bello. La limousine si allontana come fosse una panda qualunque.

Siamo allo stremo. Resistiamo con i fumi delle braccia. Il fair-play è a puttane. Per ogni sciamannata che riusciamo a placcare e convincere pacatamente a ombrellate a tornare indietro, trenta si fanno avanti. Ho in mano una tibia e non so di chi sia.

Picchietta sul microfono. Alza un pollice in direzione del fonico per chiedere il massimo della potenza.

Poi attacca con “Help yourselves!” ed è il delirio.

(non chiedetemi cos’ho scritto perché non lo so. So solo che qualche modo dovevo sfogare l’elettricità prima che arrivasse questa notizia. Belle, bellissime sorprese e persone che se le meritano, esse esistono)

D’accordo, è uso privato di mezzo pubblico.

Ed è ignobilmente out o’referenziale.

E il fatto che il blog sia mio potrebbe pure non significare una fava.

Però, ecco, ci tenevo a condividere con voi questo momento.

Non ho ancora avuto modo di guardarla con attenzione,

ma

sembra

proprio

che qui in cima al collo

ci sia la mia solita faccia da culo.

Non ci resta che il passamontagna.

 

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[che abbiamo visto genova]