[you can call me offsider]

Ma poi spiegami cosa c’entri tu col calcio, mi hai chiesto.

Eh. Bella domanda, rispondo al solo scopo d prendere tempo.

Sono nata nell’anno dello sbarco sulla luna e di Woodstock, quello della stagione che portò al Cagliari il suo primo scudetto. Due eventi storici che mi piace credere si siano verificati entrambi. Se nasci in un anno del genere il tuo destino è segnato, c’è poco da fare.

Va ora in onda la sintesi del secondo tempo di una partita di calcio del campionato di serie A. La domenica pomeriggio così, coi cronisti che specificavano chi attaccava da sinistra a destra perché la tv era in bianco e nero, e a volte non era mica facile distinguere le maglie.

Capello giocatore, con quel cognome buffo. Le figurine di Mazzola e Rivera attaccate sul lato destro della credenza. Gigi Riva, la cosa più simile a dio.

Mio padre che si rende conto che è inutile insistere col figlio, quando è la figlia che si appassiona al racconto del suo infiltraggio dietro la porta di Albertosi solo in virtù della somiglianza della giacca a vento da ferroviere con quella dei fotografi sportivi.

I mondiali dell”82, io e lui, la prima tv a colori. Un ritorno epico dal campeggio a Chia, giusto in tempo. Dovevamo arrivare in tempo. Lui, di norma compostissimo, che si mette a saltare urlando “La voce del sangueee!” sulla rete di Altobelli, potere del cognome di mia nonna che li rendeva automaticamente parenti.

Il pellegrinaggio a Superga, una cosa solo nostra.

(mio padre è originario di Caserta. Non ha mai tifato il Napoli, la Juve era troppo facile. Ha scelto di tifare il Toro, lui. Poi uno si stupisce se la nostra famiglia non ha mai avuto una vita facile)

Caput Mundi, il nome di Rudi Voeller ululato dal radiocronista come fosse un nazionale brasiliano, a qualunque ora del giorno e della notte mentre io, studentessa fuori sede, disegnavo, disegnavo, disegnavo.

Nebbiolanum, l’anno della tesi. Una voglia incontenibile di riprendere a fare sport dopo anni e anni di ginnastica artistica interrotti da un brutto infortunio. Che poi non avrei avuto più la corporatura adatta, ma vabbé. Un inverno freddissimo, almeno per noi creature tropicali, soldi questi sconosciuti, palestre che costavano un occhio e piscine con orari incompatibili con qualunque attività che non fosse smaltarsi le unghie dei piedi sul divano. Una telefonata da Alghero e il suggerimento da parte di un ex moroso ex arbitro. Poi a te il calcio piace. Il corso che iniziava il giorno dopo, uno dei primi in Italia aperti alle donne. Le coincidenze non esistono.

Luca che raccontava in giro che usciva con un arbitro, giusto per ghignare senza ritegno delle facce sbigottite dei brianzoli, ma chi? quel bel fieu? e povero Pino, col figlio culattone. Ghignava anche il Pino, ma di brutto.

Una scommessa persa, la finale di coppa Uefa in piazza Duomo, la carica della celere. Manganellate e lacrimogeni come se non ne avessi preso abbastanza a Caput Mundi mentre la Pantera si aggirava per la Sapienza. La radiografia del mio cranio e lividi ovunque per settimane. Poche.

La mia prima designazione, i giovanissimi del Milan. Rifiuto giustificato. Il trasferimento.

La prima gara, al Santa Lucia, cielo grigio bassissimo e spogliatoio dell’arbitro senz’acqua calda. Ero sposata da sette mesi e vedova da sei. Fischiai qualunque cosa, anche le rimesse laterali.

Il campo dell’Uragano, il tè da non bere mai, per nessun motivo, che se ti va bene ci hanno sputato dentro e se va male ti ci hanno messo il Guttalax. L’arbitro incinta. Un flash, ogni volta che passo da via Vesalio.

Cronometro, moneta, taccuino. Lucido nero sulle mie bellissime Pantofola d’oro. Correre fino a sputare i polmoni, scansando palloni, corpi, scaracchi. Sollevare il braccio e fischiare. Prendere freddo, caldo, pioggia, vento. Rientrare negli spogliatoi coperta di fango, erba, gesso, sudore. L’unica cosa che mi rendesse sopportabile la domenica mattina. Per molto, molto tempo.

Fino alle partite pomeridiane. Fino all’essere in terna.

Fino alla Coppa Uefa, alle stelle mai così vicine, e a quel senso di truffa finale.

Fino alla trasferta a Napoli, alla retrocessione, alle sassate senza senso, al ritorno da eroi, comunque.

Fino al gol di Conti al 94′.

Fino a Svezia – Trinidad arbitrata a Denpasar con una divisa non mia.

Fino al vaffanculo liberatorio davanti alla sentenza della Commissione Disciplina che respingeva il mio deferimento.

Fino al trofeo più brutto dell’universo, che ora fa bella mostra di sé in qualche scatola nello scantinato a casa dei miei. Capocannoniera del primo e unico torneo di calcio a cinque giocato dagli arbitri, culminato in botte da orbi all’insegna del fair-play-questo-sconosciuto, ditemi voi.

(che vergogna. Il trofeo, non gli arbitri che se le danno di santa ragione e torto benedetto)

Fino all’ultima gara della stagione scorsa, il profumo dell’erba del campo di Hussainville mischiato a quello del docciaschiuma, sempre lo stesso in tutti gli spogliatoi, l’unica donna all’interno del recinto di gioco e quella botta di nostalgia spaventosa che ti spinge a battere i piedi sulla grata davanti alla porta anche se non ce li hai, i tacchetti da cui scrollare la terra. Al limite hai i tacchi.

Sapere cosa si prova.

Sapere che domenica comincia un’altra stagione. Caldo, freddo, vento, pioggia. Domeniche che quelli furbi se le passano a letto, mica a fare i cretini in giro. Domeniche che ogni tanto te le passi a letto anche tu, con la pioggia fuori, pisolando su “Tutto il calcio” .

Sapere che non lo perdi, il vizio. Che a volte pensi che basta, non ne vale la pena, che il calcio è marcio, non è più divertente. Poi finisci per caso in un gruppo di cazzoni calciofili e non era mica vero che non ne valeva la pena.

Non lo so, se ho reso l’idea di cosa c’entro col calcio.

Tu, se vuoi sapere altro, chiedi.